di Massimo Munari
Il contributo spagnolo alla 14. Mostra Internazionale di architettura della Biennale di Venezia si suddivide in due diverse sedi espositive: una collocata nello storico padiglione nazionale ai Giardini, l’altra, costituita dal contributo offerto dalla dinamica regione catalana, nell’isola di Castello. Le due mostre offrono lo spaccato di un Paese dove il settore edilizio è stato duramente colpito dalla sfavorevole congiuntura economica attuale ma che ciò nonostante non smette di dar prova di una ricca vitalità creativa.
L’evento collaterale “Catalonia at Venice: grafting architectures”, curato da Josep Torrents i Alegre per conto dell’Institut Ramon Llull, organismo che si propone il pieno riconoscimento e la diffusione nel mondo della cultura catalana, ha come tema cardine l’innesto (curiosamente, come il padiglione italiano), concetto originato all’interno della scienza botanica, ma che viene qui metaforicamente allargato alla pratica architettonica. Come si legge fin dal pannello introduttivo: “L’innesto è una pratica che consiste nell’inserire una porzione di una pianta in un ramo o in un tronco di un’altra pianta, al fine di unirle in modo permanente, come fa il viticultore che innesta nel piede della vite in terra la talea di un’altra varietà di uva. Dall’appropriata unione di piede e talea derivano le qualità della nuova uva e l’eccellenza del vino successivamente prodotto”.
La metafora dell’innesto come metodo progettuale condiviso costituisce così il filo conduttore di una mostra dove sarebbe ben altrimenti difficile rintracciare un tratto comune fra tutti i lavori esposti, decisamente distanti nel tempo, negli intenti, nel carattere, nella tipologia e nella scala. Se da una parte si trovano infatti edifici che rimandano a un ambito di tipo agreste, quasi una riscoperta delle potenzialità dello stilema rurale dopo gli anni del boom edilizio di ambito prevalentemente urbano (il riferimento è al centro espositivo per il dolmen megalitico di Toni Gironès; alla clinica Arenys di Josep Miás; alla ristrutturazione di una casa a schiera di Calderon-Folch-Sarsanedas Arquitectes; a Casa Bofarull, ristrutturata dall’architetto modernista Josep Maria Jujol); dall’altro si riscontra una disparata eterogeneità di tipologie e contesti: il centro culturale Casal Balaguer dello studio Flores e Prats Arquitectes, recupero di un palazzo storico nel pieno centro città di Palma de Mallorca, il restauro paesaggistico della discarica della Vall d’En Joan dello studio Battle i Roig, in un quadro naturalistico di grande fascino, il Museo Can Framis dello studio BAAS, a Barcellona, esempio di sofisticato riutilizzo di edifici industriali ottocenteschi, lo spazio pubblico Teatro La Lira del team RCR, intelligente ricucitura di un vuoto nel tessuto urbano di una piccola cittadina, l’auditorium della chiesa di San Francesco dell’architetto David Closes, audace cambio di destinazione d’uso di una tipologia ben definita qual è quella di una chiesa.
Il carattere ricorrente dei distinti interventi si riscontra – come detto in precedenza – nell’atteggiamento adottato dai singoli progettisti, caratterizzato dalla stessa cura, cautela, assiduità e attenzione alle peculiarità che è propria del lavoro del botanico. L’architetto è chiamato a introdurre elementi estranei rispetto alla situazione esistente – sia essa un edificio, un ambito naturale o una città –, che siano in grado di stimolare una crescita che riveli le qualità dell’antico e del nuovo, non già per restituire, cristallizzandola, la storia del contesto in cui interviene. La modernità catalana è perciò in qualche modo morbida; il passato si dimostra disponibile e attualizzabile, lo scarto tra vecchio e nuovo, seppur evidente a livello formale, non intacca invece i presupposti del processo architettonico che mantiene i suoi caratteri di artigianalità, ben visibili ad esempio nel pannello del Casal Balaguer, pur riconoscendo l’incessante sviluppo della tecnologia anche in ambito edilizio. Una modernità che, già matura ai tempi gloriosi del modernismo di inizio Novecento, ricerca le proprie origini in un momento in cui il futuro non è mai stato più incerto.
Di segno diverso il padiglione nazionale iberico, curato dall’architetto Iñaki Ábalos per conto del Governo spagnolo, dal titolo “Interior”, dove l’oggetto dell’indagine diviene lo spazio architettonico nella sua accezione di interno. In questo caso l’attenzione non viene posta sulla processualità che sta dietro il progetto, quanto piuttosto sul risultato finale dell’operazione architettonica, sulla percezione, nel senso più concreto e tangibile del termine, che si ha di uno spazio. Qui più che mai si nota il carattere fondamentalmente esperienziale dell’approccio spagnolo rispetto alla disciplina: non si troveranno lunghe dissertazioni teoriche sulla natura della spazialità in architettura, né si incontreranno spazi offerti alla contemplazione, dove lo spettatore sia invitato a osservare con distacco qualcosa di estraneo da sé.
Il visitatore viene fisicamente proiettato all’interno delle architetture esposte, letteralmente materializzate nel piccolo padiglione veneziano attraverso immagini di grandi dimensioni, che si estendono e quasi ‘aggrediscono’ lo spazio reale, sviluppandosi tridimensionalmente attorno agli angoli delle diverse sale. Il limite tra realtà e rappresentazione tende così a scomparire, offrendo al visitatore la possibilità di vivere gli spazi riprodotti in fotografia, spazi svelati nella loro materialità costruita grazie anche ai grandi pannelli che illustrano le corrispondenti sezioni degli edifici. Completa poi ognuno dei casi studio un corredo di una decina di immagini, ciascuno dei quali ripropone altri interni di strutture realizzate in Spagna nel corso del Novecento, reale fonte di ispirazione per le architetture in mostra o più semplicemente straordinaria coincidenza di risultati.
In questa concretezza fisica, che va dalla morbidezza delle bolle dell’OostCampus dell’architetto Carlos Arroyo alla spigolosità del complesso L’atlantida di Josep Llinàs, dall’intreccio luminoso del cinema center dei ch+qs arquitectos al velo plastico del ristorante degli RCR, in una varietà di soluzioni che sorprende per la carica di sperimentalismo e originalità, troviamo il senso della modernità iberica: radicata sul fare e sulla costruzione, è la spazialità interna nella sua matericità a costituire il fondamento ultimo e necessario dell’architettura.