di Florencia Andreola
Nel 1966 Aldo Rossi scrive un articolo intitolato “La formazione del nuovo architetto” da pubblicare sulla rivista «L’architetto» (rimasto poi inedito). Esso si offre come occasione per Rossi per parlare di scuola e per esprimere la propria posizione in merito all’insegnamento dell’architettura nelle Facoltà italiane.
In tale documento emergono alcune convinzioni che egli stesso non mancherà di rendere proprie nella pratica dell’insegnamento, e che la cosiddetta “Scuola di Milano” negli anni seguenti ha compreso nella propria struttura organizzativa: «Insegnare la progettazione architettonica significa insegnare un sistema definito con cui affrontare e risolvere i problemi; ammetto che possano esservi diversi sistemi, e che anzi possa essere utile il loro raffronto e il dibattito che essi suscitano, ma sono convinto che l’unica possibilità di uscire seriamente dalla situazione in cui ci troviamo sia quella di offrire a tutti un sistema di progettazione».
Rossi crede profondamente nella “scientificità” della disciplina architettonica e nella trasmissibilità di un sistema di regole universali intese come principî fondamentali, In modo altrettanto rilevante, sceglie di parlare di progettazione e non composizione poiché predilige la concretezza di questo termine, riferendosi esso a «tutta l’attività creativa dell’architetto».
«In una facoltà d’architettura moderna dovrebbe esistere un solo corso di progettazione continuo dal primo all’ultimo anno comprendente anche i problemi di progettazione dell’architettura degli interni e dell’urbanistica», sostiene Aldo Rossi. Questo aspetto viene in una certa misura concretizzato pochi anni dopo, a partire dall’anno accademico 1967/68, grazie all’ottenimento da parte del Movimento Studentesco di un’impostazione dell’insegnamento nella Facoltà di Milano basato sui gruppi di ricerca, destinati a studenti di tutti gli anni; questi raggruppamenti tematici prevedevano la possibilità di sviluppare una ricerca senza soluzione di continuità per l’intera durata del corso di studi. Tale impostazione verrà assunta, pochi anni più tardi, anche dalla neonata Facoltà di Architettura di Pescara, dove Aldo Rossi insegnerà per un breve periodo alla fine degli anni Sessanta, per poi lasciare il testimone all’allora amico Giorgio Grassi.
I gruppi di ricerca consistevano nella definizione di un approccio alla progettazione; nel caso specifico del gruppo di Aldo Rossi fondato sull’analisi urbana: si trattava di ricerche alimentate dagli studenti, e dunque soggette a un costante rinnovamento e approfondimento. Tali ricerche erano guidate da docenti capi-gruppo che dettavano la linea, assegnavano le varie mansioni, monitoravano il lavoro analitico e progettuale: «è evidente che il corso di progettazione, così come viene qui inteso, dovrà essere necessariamente centrato sulla teoria architettonica; in altri termini sulla possibilità di un insegnamento razionale dell’architettura», scrive Rossi esplicitando la volontà di costruire proprio attraverso l’attività didattica una teoria capace di comprendere i processi di formazione della città e di condurre l’azione progettuale.
Rossi intende la disciplina architettonica come un blocco comprendente l’architettura, l’urbanistica e l’arredamento, e si schiera conseguentemente contro le diffuse posizioni che in quegli anni lottavano in favore della divisione tra questi ambiti, che egli ritiene gli «elementi costitutivi» dell’architettura. «Resta acquisito l’interesse per una progettazione a scala urbana e l’emergere dei problemi della città nel campo dell’architettura».
Rossi contribuisce in questo modo alla formazione di una nuova figura di accademico; nella lotta contro l’imperante professionalismosi va definendo negli anni Sessanta un’idea di architetto non necessariamente interessato al mestiere concreto bensì piuttosto dedito full-time all’insegnamento: «La figura del professionista che insegna a scuola riesce sempre più difficile da capirsi e da sostentersi», sostiene Rossi schierandosi apertamente, e distinguendo il lavoro che si svolge in università da quello che si pratica in uno studio professionale. Ritiene in tal senso che in università vada svolta principalmente un’attività di progettazione di carattere pubblico, nell’idea di una comunità universitaria e di messa a frutto di una ricerca collettiva: «proprio il full-time darebbe al docente, e allo studente, la possibilità di un’esperienza di lavoro, cioè di progettazione, molto più ampia di quanto possa offrire l’esperienza del singolo. […] È falso, mi sembra, affermare quindi che una posizione di questo tipo sia antiprofessionalistica; essa lo è solo nella misura che ritiene essere la libera professione un altro tipo di attività, tanto degna e onesta quanto quella della progettazione e della ricerca universitaria, ma radicalmente diversa». Ciò pochi anni dopo entrerà in contraddizione con lo stesso Rossi, quando egli comincerà a dedicarsi alla progettazione di edifici reali e dunque a praticare in modo sempre più prevalente la professione, con un conseguente abbandono dell’insegnamento a tempo pieno. Del resto era ben noto presso gli studenti dello IUAV di Venezia l’assenteismo di Rossi nel suo ruolo di docente; un assenteismo che, anno dopo anno, si intensifica per lasciare uno spazio sempre maggiore alle tematiche progettuali legate al mestiere di architetto.
Erano anni, quelli in cui Rossi scrive questo breve saggio, durante i quali era impossibile prescindere da una concezione politica e da un posizionamento ideologico che dettasse la linea delle proprie azioni e ne definisse il senso ultimo. Rossi milita all’interno del Partito Comunista Italiano sin dalla metà degli anni Cinquanta e si nutre della cultura marxista che sostanzierà il suo pensiero insieme a numerosi riferimenti letterari, filosofici, cinematografici come Gramsci, Adorno, Visconti e Russell. Le sue posizioni politiche emergono infatti anche in questo scritto, nel quale esprime la sua profonda volontà di contribuire alla costruzione di un’università democratica, anche a fronte dei cambiamenti che questa sta subendo proprio in quegli anni, nella sua trasformazione verso l’università di massa: «è proprio della democrazia, in quanto società aperta, di permettere a tutti coloro che possiedono le capacità di studio di accedere all’Università senza discriminazione di razza, di censo, di classe […] Questo non significa che l’Università democratica sia l’Università di massa; proprio nel mettere in primo piano il valore della ricerca e della libera impresa intellettuale dell’università si devono mettere in primo piano i criteri scientifici di selezione del mondo universitario, degli studenti come dei docenti». La lotta politica si traduce in una concezione etica e morale della propria azione: Rossi contempla fortemente la libertà d’azione e di pensiero, e concepisce rogersianamente l’università come il luogo il cui obiettivo ultimo è “la produzione della cultura”, ritenendo infatti «illegittimo che l’insegnamento universitario si rivolga ad altri fatti che non siano il significato delle cose».
Sarà proprio il posizionamento in favore della libertà che nutrirà la sua formazione di docente, ispirato a ciò che Russell sostiene in un suo scritto: «il compito di fondo di un insegnante universitario è quello di “…esprimere le proprie credenze e le proprie speranze, siano esse condivise da molti, da pochi, o da nessuno”». A tal proposito, e proprio in questo senso, sarà proprio all’interno dell’università che Rossi darà corpo alla propria ricerca sull’architettura, aiutato dai numerosi studenti e collaboratori che lo affiancheranno. Proprio insieme a loro perseguirà la costruzione della sua teoria, nell’idea che «ogni facoltà [debba] precisare il carattere del suo insegnamento e della sua ricerca fino a costituire una vera e propria tendenza. [Perché] solo la formazione di tendenze permette quel dialogo a livello universitario, esposizione verifica e contestazione di tesi diverse, di cui oggi sentiamo la mancanza». E del resto, solo la chiarezza di un pensiero si può offrire come strumento di confronto e di dialogo.
La tendenza sarà negli anni seguenti il progetto culturale, l’oggetto della ricerca, che Rossi svilupperà in particolar modo nell’ambito del gruppo di ricerca all’interno della Facoltà. Dire tendenza significava dare una struttura logica e scientifica alle proprie posizioni sull’architettura, una meta chiara da raggiungere, una serie di principî e un metodo di analisi e di azione da perseguire. La definizione della tendenza per Rossi è dunque la costruzione della sua teoria dell’architettura.
Non si può dire che le ambizioni di Rossi si siano poi davvero realizzate (del resto la teoria esposta ne L’architettura della città non vedrà mai un seguito, sebbene lui stesso ne denunci la necessità), se non per quanto riguarda un preciso momento storico, nel quale effettivamente la teoria rossiana possiede la capacità di definire alcuni principî universali, in particolare per quanto riguarda l’analisi della città e l’azione all’interno di essa. In seguito Rossi risulterà contraddittorio rispetto alle sue stesse convinzioni giovanili, quantomeno nell’ambito dell’insegnamento: abbandonerà infatti l’entusiasmo necessario a condurre una ricerca in divenire (che invece durante gli anni Sessanta pratica con fortissima dedizione) e si disimpegnerà dal ruolo universitario, lasciando la sua eredità in mano ai fedeli successori che, tuttavia, non sapranno proseguire nella sua costruzione, limitandosi a cristallizzarla nei suoi assunti originari.
10 novembre 2014