LEZIONI DI ARCHITETTURA 1
Una lezione di architettura da un grande scrittore americano. Dalla quale si apprende come l’architettura sia al tempo stesso qualcosa di meno e di più di quello che solitamente pensiamo.
Da Cathedral (1983) di Raymond Carver
«Mi è appena venuta in mente una cosa. Ma tu ce l’hai un’idea di che cos’è una cattedrale? Cioè, di che aspetto hanno? Capisci? Se qualcuno ti dice “cattedrale”, hai un’idea di che cosa sta parlando? Per esempio, la sai la differenza che passa tra quella e una chiesa battista?»
Lui ha lasciato uscire pian piano del fumo dalla bocca. «So che ci sono voluti centinaia di uomini e cinquanta o cento anni per costruirle», ha detto. «L’ho appena sentito dire da quel tizio, naturalmente. So che intere generazioni di una stessa famiglia a volte hanno lavorato a una cattedrale. L’ho sentito dire anche questo. Quelli che hanno messo tutto il lavoro della loro vita per cominciarle, non hanno mai visto l’opera finita. Da quel punto di vista, fratello, non è che siano molto diversi dal resto di noi, giusto?». Si è messo a ridere. Poi le palpebre gli sono calate giù di nuovo. Ha tentennato un po’ la testa. Pareva sonnecchiare. […] «Cattedrali», ha detto il cieco. Si è tirato su a sedere e ha cominciato a dondolare la testa da una parte all’altra. «Se vuoi sapere la verità, fratello, questo è su per giù tutto quello che so. Quello che ho appena detto. Quello che ho sentito dire da quel tizio. Ma magari me ne puoi descrivere una tu, eh? Vorrei tanto che lo facessi. Mi piacerebbe un sacco. Se proprio vuoi saperlo, un’idea precisa non ce l’ho mica».
Io mi sono concentrato sull’inquadratura della cattedrale sullo schermo. Come si fa a descriverla, anche a grandi linee? Ma supponiamo che ne andasse della mia vita. Diciamo che un pazzo mi minacciasse, dicendo che devo farlo, altrimenti…
Ho fissato ancora un po’ la cattedrale prima che l’inquadratura passasse di nuovo al paesaggio circostante. Ma era inutile. Mi sono rivolto al cieco e gli ho detto: «Tanto per cominciare, sono altissime». Mi sono guardato intorno nella stanza in cerca d’aiuto. «Svettano nel cielo. Sempre più su. Puntano dritte al cielo. Alcune sono così grandi che devono avere questa specie di puntelli. Per sostenerle in aria, per così dire. Questi puntelli si chiamano archi rampanti. Per qualche motivo, mi fanno venire in mente dei viadotti. Ma magari tu non sai nemmeno che cosa sono i viadotti, eh? A volte le cattedrali hanno diavoli e roba del genere scolpiti all’esterno della facciata. Altre volte, dame e cavalieri. Non mi chiedere come mai», ho detto.
Lui annuiva. Tutta la parte superiore del suo corpo sembrava oscillare avanti e indietro.
«Non me la sto cavando bene, vero?», gli ho chiesto.
Lui ha smesso di annuire e si è chinato in avanti, sul bordo del divano. Mentre mi ascoltava, continuava a passarsi le dita in mezzo alla barba. Mi rendevo conto che non glielo stavo spiegando tanto bene. Però voleva che andassi avanti lo stesso. Mi sono sforzato di pensare a cos’altro dire. «Sono davvero grandi», ho aggiunto. «Massicce. Sono fatte di pietra. A volte di marmo. Ai vecchi tempi, quando costruivano le cattedrali, gli uomini volevano essere vicini a Dio. Ai vecchi tempi, Dio era una parte importante della vita di ognuno. Lo si capisce da tutte le cattedrali che costruivano. Scusa», gli ho detto poi, «ma mi sa tanto che questo è il massimo che possa fare per te. È che non ne sono proprio capace».
«Non ti preoccupare, fratello», ha detto il cieco. […]
«Mi dovrai scusare», gli ho detto. «Ma non ci riesco proprio a spiegarti com’è fatta una cattedrale. Non ne sono proprio capace. Non posso fare meglio di così».
Il cieco è rimasto seduto immobile e mi ascoltava con la testa abbassata.
Ho detto: «Il fatto è che le cattedrali non è che significano niente di speciale per me. Niente. Le cattedrali. Sono solo cose da vedere in tv la sera tardi. Tutto lì».
È stato a quel punto che il cieco si è schiarito la gola. Gli è venuto su qualcosa. Ha tirato fuori un fazzoletto dalla tasca di dietro. Poi ha detto: «Ho capito, fratello. Non è un problema. Capita. Non stare a preoccupartene troppo», così ha detto. «Ehi, sta’ a sentire. Me lo fai un favore? Mi è venuta un’idea. Perché non ti procuri un pezzo di carta pesante? E una penna. Proviamo a fare una cosa. Ne disegniamo una insieme. Prendi una penna e un pezzo di carta pesante. Coraggio, fratello, trovali e portali qua», ha detto.
E così sono salito di sopra. Mi pareva di non avere più un briciolo di forza nelle gambe. Me lo sentivo come dopo aver fatto una corsa. Ho rovistato un po’ nello studio di mia moglie. Ho trovato delle penne a sfera in un cestino sulla scrivania. E poi mi sono sforzato di pensare a dove potevo trovare il tipo di carta che mi aveva chiesto.
Sono sceso in cucina e ho trovato una busta di carta del supermercato che aveva ancora delle bucce di cipolla in fondo. L’ho svuotata scuotendola per bene. L’ho portata di là in soggiorno e mi sono seduto per terra vicino alle gambe del cieco. Ho spostato un po’ di roba, ho allisciato la busta e l’ho stesa sul tavolino.
Il cieco si è tirato su dal divano e si è seduto accanto a me sul tappeto.
Ha passato le dita sulla busta. Ne ha sfiorato su e giù i margini. I bordi, perfino i bordi. Ne ha tastato per bene gli angoli.
«Perfetto», ha detto. «Perfetto, facciamola».
Ha trovato la mia mano, quella con la penna. Ha chiuso la sua mano sulla mia. «Coraggio, fratello, disegna», ha detto. «Disegna. Vedrai. Io ti vengo dietro. Andrà tutto bene. Comincia subito a fare come ti dico. Vedrai. Disegna», ha detto il cieco.
E così ho cominciato. Prima ho disegnato una specie di scatola che pareva una casa. Poteva essere anche la casa in cui abitavo. Poi ci ho messo sopra un tetto. Alle due estremità del tetto, ho disegnato delle guglie. Roba da matti.
«Benone», ha detto lui. «Magnifico. Vai benissimo», ha detto. «Non avevi mai pensato che una cosa del genere ti potesse succedere, eh, fratello? Be’, la vita è strana, sai. Lo sappiamo tutti. Continua pure. Non smettere».
Ci ho messo dentro finestre con gli archi. Ho disegnato archi rampanti. Grandi portali. Non riuscivo a smettere. I programmi della televisione erano finiti. Ho posato la penna, ho aperto e chiuso le dita. Il cieco continuava a tastare la carta. La sfiorava con la punta delle dita, passando sopra a tutto quello che avevo disegnato, e annuiva.
«Vai forte», ha detto infine.
Ho ripreso la penna e lui ha ritrovato la mia mano. Ho continuato ad aggiungere particolari. Non sono certo un artista. Ma ho continuato a disegnare lo stesso.
Mia moglie ha aperto gli occhi e ci ha fissato. Si è tirata a sedere sul divano, con la vestaglia tutta aperta. Ha detto: «Che cosa state facendo? Ditemelo, voglio sapere».
Non le ho risposto.
Il cieco ha detto: «Stiamo disegnando una cattedrale. Ci stiamo lavorando insieme, io e lui. Premi più forte», ha detto, rivolto a me. «Sì, così. Così va bene», ha aggiunto. «Certo. Ce l’hai fatta, fratello. Si capisce bene, adesso. Non credevi di farcela, eh? Ma ce l’hai fatta, ti rendi conto? Adesso sì che vai forte. Capisci cosa voglio dire? Tra un attimo qui avremo un vero capolavoro. Come va il braccio?», ha chiesto. «Ora mettici un po’ di gente. Che cattedrale è senza la gente?»
Mia moglie ha chiesto: «Ma che succede? Robert, che cosa stai facendo? Si può sapere che succede?»
«Tutto a posto», le ha detto lui. «E adesso chiudi gli occhi», ha aggiunto, rivolto a me.
L’ho fatto. Li ho chiusi proprio come m’ha detto lui.
«Li hai chiusi?», ha chiesto. «Non imbrogliare».
«Li ho chiusi», ho risposto io.
«Tienili così», ha detto. Poi ha aggiunto: «Adesso non fermarti. Continua a disegnare».
E così abbiamo continuato. Le sue dita guidavano le mie mentre la mano passava su tutta la carta. Era una sensazione che non avevo mai provato prima in vita mia.
Poi lui ha detto: «Mi sa che ci siamo. Mi sa che ce l’hai fatta», ha detto. «Da’ un po’ un’occhiata. Che te ne pare?»
Ma io ho continuato a tenere gli occhi chiusi. Volevo tenerli chiusi ancora un po’. Mi pareva una cosa che dovevo fare.
«Allora?», ha chiesto. «La stai guardando?»
Tenevo gli occhi ancora chiusi. Ero a casa mia. Lo sapevo. Ma avevo come la sensazione di non stare dentro a niente.
«È proprio fantastica», ho detto.
(Raymond Carver, Cattedrale, trad. it. di Riccardo Duranti, minimum fax, Roma 2002)