Ovvero la lotta degli anziani contro i giovani
di Marco Biraghi
Giovedì 6 marzo 1975, sul settimanale «Il Mondo», appare la prima puntata di Gennariello, «trattatello pedagogico» di Pier Paolo Pasolini.
La pubblicazione proseguirà nelle settimane successive, raggiungendo il numero complessivo di quattordici uscite (numero nettamente inferiore a quello previsto dal «Progetto dell’opera», esposto dall’autore nel pezzo edito il 3 aprile), per interrompersi infine il 5 giugno dello stesso anno.
I medesimi testi saranno poi raccolti nel volume pubblicato nel 1976 da Einaudi nella collana dei «Supercoralli» con il titolo Lettere luterane, all’indomani della morte di Pasolini, avvenuta il 2 novembre 1975.
L’intero «discorso pedagogico» pasoliniano si rivolge a un ragazzo napoletano «quindicenne»: «uno studente che fa la prima o la seconda liceo», e dunque inevitabilmente «borghese».
Tra il marzo e il giugno del 1975 io avevo quindici anni (o, per essere più precisi, quindici anni e mezzo, essendo nato il 18 settembre del 1959) e frequentavo il secondo anno delle scuole superiori, ovvero la seconda ginnasio.
Nato a Milano, non a Napoli. La differenza – oltreché ovvia – è decisiva per Pasolini: giacché l’esistenza di un quindicenne «interiormente carino», se è già “eccezionale” a Napoli (unica città italiana ad aver conservato una propria identità e vitalità nella generale “rivoluzione culturale” consumistica che ha luogo nel nostro paese negli anni sessanta), sarebbe da considerare addirittura «miracolosa» a Milano.
Il discorso di Pasolini, dunque, non si rivolgeva a me direttamente, bensì a qualcuno che mi era nondimeno assai prossimo: per appartenenza di classe (se non per provenienza geografica), e per età. Un mio coetaneo. Un mio simile. Qualcuno con cui avrei potuto condividere il medesimo «linguaggio delle cose», il medesimo muto insegnamento dei segni linguistici (oggetti, immagini, ecc.) che nel 1975 potevano presumibilmente circondare un ragazzo quindicenne (pur con tutte le differenze che passano tra un Gennariello napoletano e un “Ambrogino” milanese).
Non è quasi il caso di dire che quel «trattatello pedagogico» pubblicato su «Il Mondo» da Pasolini tra il 6 marzo e il 5 giugno del 1975 allora io non l’ho letto. Né l’ho letto nelle pagine del volume einaudiano pubblicato l’anno seguente.
Ricordo di aver visto circolare copie del «Mondo» in casa dei miei genitori nel corso della mia adolescenza; così come ricordo mio padre impegnato nella rituale lettura quotidiana del «Corriere della Sera», altro giornale sulla cui terza pagina Pasolini pubblicava i suoi articoli (quelli che compongono le Lettere luterane, ad esempio, o molti di quelli di compongono gli Scritti corsari, l’ultimo libro pubblicato in vita da Pasolini, uscito in quello stesso 1975). Ma confesso di non aver mai degnato di troppi sguardi né l’uno né l’altro. Era quello il periodo in cui per la prima volta assumevo l’abitudine di acquistare un giornale – e in quei primi mesi del 1975 il “mio” giornale era «Lotta continua».
Quand’anche l’avessi letto, d’altronde, non credo che l’avrei capito, allora – non certo come l’ho capito adesso, comunque. Ho infatti letto Gennariello – colpevolmente – soltanto un anno fa, in un’età che è ormai molto vicina a quella che Pasolini aveva quando lo ha scritto: intorno ai cinquant’anni. (Uno stesso libro per ciascun lettore può avere tempi d’incubazione e di manifestazione diversi. Ha ragione a questo proposito Siegfried Kracauer allorché paragona il contenuto di certi libri alle stelle: «la cui luce ci raggiunge forse solo dopo decine di anni»).
In quelle pagine Pasolini sottolinea la drammatica, e per certi versi inedita – nonché inusitata – estraneità che separa la propria generazione di cinquantenne dalla generazione di quindicenne cui appartiene Gennariello (la mia stessa generazione, come ho già detto); «una estraneità […] che non è solo quella che per secoli e millenni ha diviso i padri dai figli», e che piuttosto è il riflesso di «uno dei più terribili salti di generazione che la storia ricordi».
Ma che cos’è successo a partire dalla fine degli anni cinquanta, proseguendo poi nel decennio successivo, e addirittura intensificandosi nella prima metà degli anni settanta, quando egli scrive? Che cosa ha diviso in modo tanto netto e definitivo le generazioni che si collocano prima e dopo di essi?
(continua…)
27.11.09
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