Relazione introduttiva alla II giornata del convegno dedicato a E.N. Rogers
di Luciano Patetta
Iniziamo la seconda giornata del Convegno su Ernesto Nathan Rogers, doverosa celebrazione del centenario della sua nascita, celebrato giustamente anche alla Facoltà di Architettura di Venezia e a quella di Napoli, e previsto pure altrove.
Mi permetto di rubarvi qualche minuto per una breve riflessione.
Ernesto Nathan Rogers è stato il più importante e il più completo maestro dell’architettura del secondo dopoguerra in Italia, di quella stagione eccezionale -e penso irripetibile- della cultura architettonica italiana, nella quale, dopo gli anni di formazione vissuti al tempo di Terragni, di Persico e di Pagano, erano attivi, sia nella scuola che nella professione, personalità come Quaroni, Samonà, Scarpa, Zevi, Gardella, Albini e Ridolfi. Credo che quella brillante stagione si sia definitivamente conclusa, purtroppo, e così credo che per certi versi anche molti- non tutti- ma molti degli insegnamenti di Rogers debbano essere storicizzati.
Rogers era un intellettuale borghese che coltivava il decoro e la dignità della parte migliore della borghesia progressista, quella a cui appartenevano- per far degli esempi. Luigi Einaudi, Enrico De Nicola e Adriano Olivetti. Ciascuno di loro aspirava a trasferire questo decoro e questa dignità nel proprio lavoro, oltre le indispensabili competenze: Rogers naturalmente aspirava a trasferire decoro e dignità nel fare architettura, nel senso di una urbanità e civiltà del costruire, secondo precisi ideali politici e sociali, mediando, credo si possa dire, tra il liberismo sociale e il socialismo vero e proprio. Egli aveva osservato, già negli scritti degli anni dell’esilio in Svizzera: “Non ci hanno detto per quale società dovevamo costruire”. Una osservazione di grande significato, questa, che collegava in maniera talvolta anche tragica l’architettura ai regimi politici.
Era un borghese ben vestito, istintivamente elegante, che non alzava mai la voce né all’università (allora attraversata dalle prime agitazioni) né negli scritti sulle pagine della sua rivista “Casabella-Continuità”, e neppure nelle architetture che inseriva nel tessuto della città con i colleghi dello Studio BBPR. Pur essendo un colto intellettuale da sempre interessato e partecipe di tutti gli aspetti della modernità, Rogers conservava quel controllato buon gusto della vecchia borghesia europea. In questo era forse simile ad Adolf Loos, del quale -d’altronde- mi sembra che egli condivida un distacco, una lontananza un che di anacronistico. rispetto alla crisi dei valori di gran parte dell’architettura dei nostri giorni. Rogers insisteva su due questioni anzitutto: I°) la necessità per un architetto di una vasta cultura, non limitata alla propria specializzazione, bensì estesa al teatro, alla letteratura, alla filosofia, alla politica ecc. 2°) l’impegno morale e civile nel proprio lavoro, che doveva contemplare anche un eventuale rifiuto ad essere coinvolto in interventi sbagliati e/o immorali. Questi suoi principi coincidevano, come è evidente, con quelli di Leon Battista Alberti, e nelle sue parole possiamo rilevare più di una coincidenza con quelle scritte in un tempo così lontano da un maestro come l’Alberti: per esempio, anche Rogers definiva l’architettura come la sintesi di utilità e bellezza, senza sprechi: senza sprechi economici e senza sprechi formali. Una strada questa dalla quale, dagli anni in cui Rogers la predicava, ci si è allontanati ogni giorno sempre di più. Ma anche gli insegnamenti di Alberti sono stati pressoché ignorati nello sviluppo del Rinascimento; sono stati elusi. Lo stesso è avvenuto per la sostanza della lezione architettonica di Rogers, tranne che per alcuni suoi affezionati allievi e per qualche giovane collaboratore. Alberti e Rogers- insisto su questo accostamento- appaiono oggi entrambi inattuali e sconfitti. Intendiamoci, considerando la inattualità e la sconfitta – in particolare quelle degli intellettuali- due condizioni positive e ammirevoli, non due condizioni negative.
D’altronde, entrambi sono stati dei maestri difficili. Mi ricordo, come allievo del suo corso di “Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti” e avendo partecipato con lui a dei viaggi di studio, la difficoltà delle sue lezioni, difficoltà concettuale non linguistica, lezioni più simili a quelle di un filosofo che a quelle di un architetto o di uno storico. Come studente, avevo naturalmente una certa fretta di imparare a fare l’architetto, e mi aspettavo degli insegnamenti subito direttamente applicabili. Rogers invece ci coinvolgeva in un insieme di problemi dialettici, e in una esperienza critica che doveva, per citare le sue parole, “valutare tutta la complessità dell’evoluzione fenomenologica dell’architettura”.
Contemporaneamente a scuola e sulle pagine di “Casabella” Rogers approfondiva in modi nuovi e non facilmente ritrovabili altrove (in libri o articoli) le nozioni di moderno, di passato e di tradizione; la responsabilità verso la tradizione, come lui diceva. Aggiungendo poi quella “tradizione del moderno” alla quale ci invitava a restare fedeli. Erano nuove e difficili le sue definizioni di “continuità”, e le sue considerazioni per metterci in guardia dal pericolo del formalismo modernista e dell’imitazione passiva. Ancor più difficile era la sua concezione di “utopia della realtà” che doveva essere l’opposto dell’ “utopismo astratto e stravagante”: per Rogers l’utopia della realtà era la volontà di “proiettare il presente in un futuro possibile”, tema per lui fondamentale nelle ricerche in una Facoltà di Architettura. L’espressione “utopia della realtà” riecheggiava le parole “sostanza di cose sperate” scritte nel 1935 da Edoardo Persico a conclusione della sua “Profezia dell’architettura”, a sua volta citazione della Lettera agli Ebrei di S.Paolo: “La fede come sostanza di cose sperate”.
Rogers insisteva sulla indispensabilità della storia, di tutta la storia dell’architettura del passato, di una sorta di coscienza storica, ma ci metteva in guardia dallo slogan, allora di moda, dell’uso della storia nel progetto d’architettura. Comunque, egli affrontava il ricupero non facile della cultura storica, che come è noto, era stata bandita dalle avanguardie e da quasi tutto il Movimento Moderno tra le due guerre. Meno difficile appariva il suo invito a considerare nella progettazione le “preesistenze ambientali”, anche se appariva poco convincente la necessità da lui affermata di dover “valutare il caso per caso”, anziché poter seguire degli indirizzi precisi. Il ricupero della storia e le preesistenze ambientali hanno prodotto, come si sa, risultati non del tutto convincenti per Rogers, come per esempio certe opere del cosiddetto Neoliberty e i presagi del Postmodern.
Pubblicando su “Casabella” le ultime opere dei grandi maestri, Gropius, Mies, Le Corbusier e Wright, ancora viventi, opere così diverse da quelle di prima della guerra, egli cercava di ritrovarvi i principi del Movimento Moderno espressi in forme che riconosceva essere “esperienze che portano a forme più complesse e conducono il rapporto tra le parti a più dense implicazioni”. Era la concezione dell’”ortodossia dell’eterodossia” e l’affermazione convinta del valore del pluralismo espressivo. Vi ritornava il principio della “continuità”, non nella permanenza di forme e di linguaggi, ma al contrario nella loro evoluzione.
A proposito del pluralismo, voglio citarvi un pensiero inedito di Rogers, che ha detto a voce e non ha mai pubblicato. L’avevo annotato e ve lo cito, come piccolo contributo alla conoscenza dei suoi insegnamenti: “Non dobbiamo pensare di possedere, ciascuno di noi, il monopolio della logica”. E si riferiva, naturalmente alla logica della progettazione architettonica.
Tanta finezza di riflessioni, tanta attenzione e cura nel controllo del progetto d’architettura, tanta partecipazione attiva ai problemi della costruzione della città, fanno di Rogers, fatalmente, una figura distante dall’attualità. Ma quanto sto dicendo non va certo interpretato come un invito a trascurare gli insegnamenti di Rogers. Anzi, concludo con il consiglio ai più giovani di leggere e riflettere a lungo sui suoi scritti, a condizione però di accettare il rischio di entrare a far parte di una minoranza di opposizione, non certo della maggioranza trionfale dei protagonisti più noti dell’architettura di oggi.
Facoltà di architettura civile del Politecnico di Milano
3 dicembre 2009