Immagini diverse, risposte varie sono state date a “I paesaggi della lentezza”, convegno organizzato dalla Scuola di dottorato di Venezia il 17 dicembre 2009. Benno Albrecht, Marco Brogiotti, Monica Carmen, Francesco Escalona, Alberto Ferlenga, Enrico Fontanari, Emanuel Lancerini, Arturo Lanzani, Renzo Marangon, João Nunes, Juanma Palerm, Domenico Patassini, Fabio Renzi, Amerigo Restucci, Paolo Rumiz, Alessandra Taverna, Michel Thoulouze e Maria Chiara Tosi si sono avvicinati in modi sorprendentemente diversi al tema, evidenziandone sia gli aspetti processuali, teorici, immateriali sia gli aspetti progettuali, tangibili e concreti in merito a come i luoghi contemporanei, parti costitutive della nostra quotidianità, siano oggi esposti a una lenta metamorfosi, lontani certo dall’essere immobili ma costantemente connotati da piccoli, graduali movimenti: spaziali, di significato, di forma. Essi sono rimasti pur tuttavia sempre legati all’ambiente plurale: urbano o rurale, industriale o residenziale, pubblico o privato… da cui prendono forma e dal quale si distanziano per scoprirsi e riconoscersi ogni volta in uno stato di rinnovato valore.
In questi scenari troviamo pertanto un senso di luogo perduto che interessa tutti quegli spazi territoriali oggi addormentati nell’abitudine di “sempre uguali” o che troppo spesso vengono rapidamente e distrattamente attraversati. Del resto, il movimento, proporzionalmente alla sua velocità intrinseca, tende sempre a negare lo spazio, che si trasforma presto in semplice spazio attraversato. Dunque ciò che diviene interessante non è più l’immagine in sé, ma il ritmo del prodursi, riprodursi, associarsi, mutare delle immagini in quel processo continuo che costringe l’immaginazione a completare la forma che la velocità aveva in precedenza distorto o cancellato del tutto. In altri termini, come scriveva lo stesso Chatwin in “Le vie dei canti”: «Tutte le nostre parole per paese sono le stesse che usiamo per via», ovvero il mondo esiste in quanto viene cantato durante il movimento lungo un percorso e la via è quindi a sua volta individuata da una serie di tracce che troviamo lungo il cammino e che ne consentono in questo modo la riconoscibilità di luogo. D’altra parte la strada in quanto linea induce ad andare come se questo ne fosse il suo valore intrinseco, nel senso che andare non è solo progressione verso una meta prefissata, curiosità di sapere cosa riserva l’orizzonte ma è anche andare non importa dove. Pertanto il viaggio in quanto tale, forse si “deve andare” per incontrare qualcuno, qualcosa: «Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati? Dove andiamo? Non lo so ma dobbiamo andare». La sensazione richiesta è quindi di non essere in “nessun luogo” e, di conseguenza, di non essere in “alcuno spazio sociale”, il movimento dunque come pura sperimentazione, ricerca senza un tracciato lineare ma con un’attenzione molteplice all’accadere, come lo stesso Nietzsche insegnava; o pure Baudelaire sottolineava la difficoltà di ritrovare l’autenticità di luogo andata in qualche modo perduta a seguito dell’acquisita facilità di comunicazione e quindi in ultima analisi, proprio per effetto della frequenza dei viaggi, il desiderio per mete lontane, senza però mai credere davvero a un’esperienza salvifica o come scriveva anche Michel de Montaigne: «Non lo comincio [il viaggio] per tornare né per portarlo a termine, mi propongo solo di muovermi» in quell’idea di peregrinazione senza meta né scopo come esperienza autentica e unica nella continua percezione di “mondo”. Di conseguenza osserviamo che noi siamo maledettamente più condizionati dalle presenze intorno di quanto osiamo pensare. I luoghi ci sono, in effetti, consoni al pari delle persone e per questo dobbiamo ricordare che, nonostante la nostra tendenza all’astrazione e alla rarefazione, noi siamo da qualche parte e questo “qualche parte” diventa presto una parte di noi, in quella nostra attitudine ad addomesticare ogni luogo che inizialmente ci appare nel caos dell’ignoto e di cui dobbiamo riconoscerne presto la potenza, ricercarla o evitarla, rafforzarla o indebolirla ma nella quale dobbiamo pur sempre distinguere il luogo in quanto “località” e che è comunque necessario fare costantemente i conti col molteplice, col principio della confusione e del perdersi, ingraziarselo e cercare ogni volta di indovinarne le intenzioni senza mai sottovalutarlo, riconoscendo in questo modo i “segni del luogo”. D’altra parte oggi solo l’idea di ritrovarsi perduti ci terrorizza e assumiamo così un misero atteggiamento che in un tempo lontano aveva ben descritto Socrate, quando diceva di un tale che non si era affatto emendato nel corso del suo viaggio: «Lo credo, si è portato con sé». “Portarsi con sé” significa infatti colonizzare con la propria presenza ogni passo del peregrinare e di conseguenza non venire a patti con la potenza del luogo. Dunque non ci si può più perdere perché i luoghi vengono troppo presto divorati dall’ordine che in ogni dove ci siamo portati appresso e così ad essi non viene più concesso di essere “località” con cui poter interagire. Capita dunque di camminare sovente per città sconosciute e sentire che “calzano bene”, che ci invitano a esplorarle, che i passaggi da loro offerti fanno affiorare una conoscenza, dei sentimenti di adeguatezza, ci sentiamo quindi conformi a quei luoghi ed essi a noi. Pagine e pagine sono state scritte in merito a questo fenomeno e al suo contrario, senza però mai raggiungere una soluzione definita. Del resto l’ambiente non è solo un dato: in esso sono oggettive certe condizioni e proporzioni (igieniche, climatiche, fisiche); esso è costellato di spazi costruiti e non, territori che ci fuggono, a cui non apparteniamo o che vengono puntellati da discutibili, ambigue, insignificanti, indifferenti architetture. Importante è osservare che l’ambiente non è però da intendersi solo come “intorno” ma come un’interazione continua tra due presenze: quella dell’ambiente e quella dello spazio. Il territorio non va, infatti, “sentito”, va “fruito”: questa operazione richiede però la costante produzione di un orientamento standardizzato e di “sicurezza” a cui poter fare appiglio, ogni tanto, ma è proprio in questa continua ricerca di una dimensione domestica, di un senso di controllo generale che risiede quella progettazione standardizzata di sistemi sempre uguali, costanti e ripetibili: i motel, le aree di servizio, i centri commerciali… che hanno oggi plasmato, per esempio, l’intero paesaggio americano. Dunque l’utopia dell’indifferenza tra corpo umano e località copre in questo modo il fastidio e la fatica che la varietà del mondo fisico porrebbe al viaggiatore. Perciò dove si trova ora l’identità di luogo e la sua propria riconoscibilità? Da un lato il “perdersi” antico e “ingenuo” si è così smarrito nella noia del territorio pianificato, ritrovandosi invece nelle fratture di quella generale uniformità, nelle sue pieghe più profonde, tuttavia alla fine emerge sempre questo antico insegnamento: che i posti ne sanno più di noi e che se cerchiamo di ridefinirli in realtà sono loro a chiarirci e a raccontarci chi siamo. D’altra parte il crescere degli Stati-nazione e il moltiplicarsi delle frontiere ha provocato “un uso del mondo” definibile come “a portata di mano”; in questo modo il viaggio, la velocità sono dunque basati su un imbroglio: i chilometri sono di fatto veri solo per i veicoli e non per chi li percorre e il tempo di spostamento diviene possibile solo grazie all’oblio della geografia, dello spazio intermedio tra un posto e l’altro, ogni volta da noi ignorato. Pertanto lo spostamento cancella l’immensità di particolari geografici che stanno “nel mezzo” e viaggiare significa ora dimenticare, accettare di “glissare” l’estensione e la diversità del mondo. Il solo jet-leg sembra resistere a questa dimensione spazio-temporale e, come fossimo su una macchina del tempo, in una sensazione di vertigine diffusa, ci troviamo presto immersi in due tempi che si mescolano fra loro fin quando l’uno, il nuovo, si distacca dall’altro e lo lascia sempre più in dietro. Ecco dunque l’impossibilità di conciliare territori e paesaggi, persone e visi lontani in un mondo che corre troppo velocemente e che solo in apparenza si mostra unito e facile da attraversare ma che in realtà si trova in uno stato di diversità spaventoso e di potenziali, continui conflitti. Infine ricordiamo che non esiste un viaggio che non sia in buona parte già esplorato attraverso le immagini che in precedenza abbiamo osservato, costringendoci in questo modo a vedere attraverso le lenti di chi prima di noi aveva già fotografato, filmato, documentato… Immagini, queste, che però vengono presto smentite dall’esperienza del nostro fruire reale. Dunque andiamo, lentamente ma andiamo!
In questo scenario sono state presentate le diverse lezioni che hanno affrontato, con accezioni differenti, tematiche alte, quali lo stare e l’andare; identità e riconoscibilità sia nei termini di strutture percettive di luogo sia nelle ipotesi, incertezze della città contemporanea; un convegno quindi come base per una attivo, costante confronto fra molteplici, eterogenei punti di vista.
di Silvia Dalzero
Brescia, 21 dicembre 2009