di Marco Biraghi
Questi appunti di viaggio sono stati scritti tra aprile e maggio del 2002, in occasione di una missione in Iraq organizzata da “Un ponte per…” (Organizzazione non governativa che tiene i rapporti con i paesi sotto embargo), e parzialmente pubblicati su “Abitare la Terra”, n. 3, 2002, pp. 4-9.
Amman-Baghdad
Circa 1000 km separano le due città. Ma in realtà molto di più. Lungo tutta l’interminabile Desert Road, Baghdad appare come un miraggio: vale a dire che la sua immagine – ma in verità la sua stessa sostanza – assume il carattere dell’irraggiungibilità. L’una e l’altra paiono continuamente dissolversi nella distesa sempre uguale del deserto che si attraversa.
Baghdad è come protetta da questa cortina impalpabile. A prima vista potrebbe sembrare soltanto “distanza”. Ma a ben guardare si tratta di qualcosa di ancora più inafferrabile, di qualcosa ancora più fatto di nulla. Baghdad è circondata, avvolta, irretita, ben più che da una sconfinata landa desertica, entro una quasi impenetrabile barriera di sonno. Materia ipnotica continuamente reiterata, continuamente alimentata, ma al tempo stesso continuamente ricacciata indietro. Il rapporto che Baghdad intrattiene con il sogno non ha nulla di letterario, nulla dell’immaginario fantastico e romantico delle Mille e una notte. È un rapporto fisico, carnale, al limite – o già oltre il limite – del doloroso. Così almeno deve apparire attraverso la fessura degli occhi del guidatore che percorre la distesa infinita del deserto lottando tenacemente contro questa chimera. La quale, come tutte le chimere che si rispettino, si nutre ben più volentieri di qualcosa che non c’è, piuttosto che di qualcosa che c’è; di assenze, piuttosto che di presenze. Difficile però anche solo descrivere di quali assenze si tratti. Diversamente, iniziebbero già a diventare qualcosa, a uscire pian piano dal loro voracissimo niente. Soltanto in senso molto generale e impreciso, pertanto, si può definirla assenza di qualsiasi “differenza”, di qualsiasi variazione, di qualsiasi “sporgenza” cui attaccarsi, cui far aderire il proprio stato di veglia cosciente. Nient’altro, se non la grande superficie asfaltata a tre corsie, che sempre più tende ad assumere il colore del deserto, e il deserto stesso, che sempre più tende ad assumere il colore del nulla.
La battaglia che conduce il conducente viene combattuta in posizione seduta, e dunque apparentemente statica; ciò nondimeno egli ha a propria disposizione un gran numero di armi e di astuzie. Beve tazze di thè molto ristretto e molto zuccherato, versato da un thermos dal contenuto interminabile quanto lo sono il deserto e la strada; mastica non meglio identificabili semi o piccoli frutti che formano nella sua bocca una poltiglia biancastra dall’aspetto simile a quello di un chewing-gum, e che trae con regolarità inesorabile da un sacchetto altrettanto privo di fondo, posto, come molte altre cose di cui egli dispone, nell’ampio spazio che si apre sotto il cruscotto; ascolta – e ne rende partecipi anche gli altri occupanti dell’automobile su cui viaggia – cassette di musica araba (iraqena, giordana o di chissà dove ancora – non è dato comprenderlo ad orecchie profane), ogni brano della quale ha la durata di un’intera traversata del deserto e il ritmo di una cavalcata selvaggia; a tratti tamburella con le dita sul volante, si gratta freneticamente la testa, consulta un’agenda, legge, scrive addirittura qualcosa, alza e abbassa il finestrino per cercare di ottenere, più ancora che un soffio di vento (troppo caldo, del resto, a confronto con il getto di aria condizionata che domina all’interno, per essergli di conforto), un qualche genere di evento che sia registrabile dalla coscienza prima che dall’epidermide. Il tutto senza mai fermarsi, sempre sfrecciando a 150 km all’ora, e ripetuto in sequenze dalla frequenza sempre più rapida, sempre più ossessiva; sempre lottando contro quel nulla, sempre impedendogli di prendere il sopravvento, di trasformarsi in qualcosa da cui lasciarsi cullare, e dentro cui perdersi.
La traversata del deserto a cavallo di una quattro ruote motrici è l’archetipo di tutte le battaglie contro il colpo di sonno del guidatore al volante. Essere riusciti a sconfiggere questo insidioso fantasma significa aver superato una prova iniziatica. Il driver di professione in questo senso possiede davvero i tratti dello stregone. Anche quando la fessura dei suoi occhi si chiude ancora di più, quando la sua testa barcolla, ciondola improvvisamente in avanti, per un breve cedimento alle suadenti profferte del dio Hypnos, c’è da essere certi che non perderà mai il controllo del mezzo e dei passeggeri che gli sono stati affidati. C’è qualcosa di magnetico, si direbbe quasi di magico, nel suo riuscire a procedere, nonostante clima, paesaggio, distanza congiurino silenziosamente contro di lui. Così come contro di lui – per un paradosso che il guidatore metropolitano occidentale non riesce facilmente a comprendere – è la quasi totale assenza di traffico (se si fa eccezione per qualche sporadico camion con rimorchio e qualche autocisterna che trasporta greggio, la cui comparsa fa lo stesso effetto dei rari greggi di pecore che qua e là punteggiano il deserto. Come noto del resto, pecore e camion hanno il potere di far addormentare, non certo quello di mantenere desti).
Dietro questa cortina di sonno sempre rinviato, dietro questo sforzo sovrumano di rimanere attaccati a una realtà sfuggente, a una coscienza che non ha nulla cui appigliarsi e tutto dentro cui sprofondare, dietro tutto ciò c’è Baghdad. Ma non bisogna sognarla troppo intensamente, per non rischiare che quel sogno finisca a occhi chiusi, e insieme ad esso anche il viaggio.