di Marco Biraghi
Questi appunti di viaggio sono stati scritti tra aprile e maggio del 2002, in occasione di una missione in Iraq organizzata da “Un ponte per…” (Organizzazione non governativa che tiene i rapporti con i paesi sotto embargo), e parzialmente pubblicati su “Abitare la Terra”, n. 3, 2002, pp. 4-9.
Embargo fotografico
“The embargo is not only for food, it is also for mind”.
Non si possono fotografare gli svincoli autostradali, gli stadi, i grandi magazzini. (In questo caso il divieto di fotografare si dimostra del tutto posizionale. Più che il cosa, riguarda il dove. La stessa merce che nei suq i venditori invitano animatamente a fotografare, nei magazzini statali fanno di tutto per proteggerla dagli indiscreti occhi di vetro dei fotografi. Ma ciò attiene forse più allo stile generale di vendita, che a quella merce particolare che è l’immagine. E infatti, mentre nei suq i venditori invitano animatamente a comprare qualsiasi cosa, nei magazzini statali sembrano fare di tutto per proteggere dagli acquirenti le proprie merci).
Naturalmente non si può fotografare dall’alto della Saddam International Tower, che domina Baghdad e che proprio per i turisti è stata concepita. Neppure i monumenti e i musei si possono fotografare, se non grazie a permessi speciali o mediante piccole corruzioni. Al proprio arrivo in Iraq si ha l’impressione che non si possa fotografare quasi niente. Assolutamente non i militari, i poliziotti, i vigili urbani, chiunque indossi una divisa, per quanto non sia nell’esercizio delle sue funzioni; un po’ di più le persone, che tuttavia spesso osservano la macchina fotografica con più diffidenza che divertimento (non tutti, comunque). Non si possono fotografare neppure le cose comunemente più infotografabili – ovvero quelle meno fotogeniche: il degrado urbano, gli edifici in costruzione, i luoghi che non sono tali, la quotidianità più banale.
Lo spazio visivo iraqeno risulta così costantemente conteso tra ciò ch’è vietato e ciò ch’è permesso fotografare. I suoi 360° sono sezionati, suddivisi in sottosettori, traversati da confini invisibili ad occhi profani ma per altri occhi invece ben riconoscibili e evidenti. Il raggio d’azione consentito alla fotografia si riduce o si allarga pertanto a seconda dei luoghi e dei casi – ma necessita sempre comunque di una speciale goniometria il cui esercizio richiede lunghissimi tempi di apprendistato.
In alcuni casi il divieto di fotografare è specifico, imposto da cartelli bilingui, arabo-inglesi. In altri è semplicemente ovvio (basi militari e possibili obiettivi bellici in genere), estensibile però anche al meno ovvio (“obiettivi sensibili”, come oggi si dice; dunque quasi ogni cosa). In altri ancora il divieto consiste nel consiglio o nel parere più o meno amichevole di qualcuno che si trova a portata di mano (l’accompagnatore che almeno in teoria dovrebbe sempre affiancare il visitatore occidentale, o un suo estemporaneo sostituto), che ha il carattere vincolante di ciò che lascia presagire non meglio precisate ritorsioni. In ulteriori casi il divieto di fotografare non c’è del tutto, benché a quel punto sia passata la voglia, o il tempo, o la pazienza di farlo. In ogni caso, fotografare è molto difficile in Iraq.
Il divieto di fotografare è soltanto l’immagine (o sarebbe meglio dire: la non-immagine, la negazione dell’immagine) del sistema iraqeno, fondato del resto su una serie ben più grave di limitazioni della libertà, che non sia quella d’immagine.–
In senso immediato si potrebbe credere che il divieto di fotografare sia dovuto al pericolo dei bombardamenti che continuamente incombe sull’Iraq – e che dunque viga per cautelarsi dall’individuazione degli obiettivi “strategici”. D’altra parte però non è un mistero per nessuno (e per il governo iraqeno meno di tutti) che con la tecnologia dei satelliti-spia ogni cosa è ormai potenzialmente visibile – e presumibilmente ogni cosa anche già vista. Nessuna fotografia, per quanto ravvicinata o dettagliata, potrebbe dunque aggiungere alcuna informazione mancante. La questione si presenta allora in termini alquanto diversi.
L’atto diventato per noi più usuale, quello più consustanziale a tutta la cultura occidentale, l’atto del fotografare – ovvero l’atto del guardare all’occidentale, ch’è un guardare senza guardare, un guardare differito, un guardare per interposto strumento, ovvero la delega sistematica della funzionalità del proprio occhio a un altro occhio, meccanico, o elettronico, ovvero il tentativo di trasformare il proprio occhio in qualcosa di almeno potenzialmente più “obiettivo” ma al tempo stesso anche in qualcosa dalla memoria più durevole, meno transitoria -, tale atto così fondamentale e ormai quasi naturale per noi occidentali, in Iraq è fortemente interdetto, osteggiato, boicottato. L’Iraq pratica il boicottaggio nei confronti della fotografia. Sa che in questo modo priva di qualcosa il mondo (o perlomeno, quella parte del mondo da cui si sente minacciato); qualcosa di “proprio”, qualcosa che le appartiene di diritto e di fatto; qualcosa che non vuole in nessun caso “esportare”, rendere oggetto di scambio.–
Il divieto di lasciarsi fotografare è l’embargo che l’Iraq pone sulla propria immagine. Certamente questa “ritorsione”, questa “rappresaglia”, non uccide o non ferisce nessuno, non fa danni tangibili, non provoca sofferenze, se non in chi sia giunto in Iraq voglioso di “coglierne” qualche bellezza o qualche contraddizione più o meno evidente. Ma è appunto contro quel mondo il cui guardare è un’indebita appropriazione, un metodico “carpire” ciò che non gli appartiene, che si rivolge l’embargo iraqeno. Embargo culturale, dunque, prima e più ancora che materiale. Soltanto in misura minore valutabile come “vendetta” nei confronti di quella parte del mondo che impone ad esso un embargo ben più oneroso, l’embargo fotografico iraqeno si rivela essere, a una considerazione più attenta, la strenua, disperata guerra condotta da un solo paese contro il resto del mondo per una diversa civiltà del guardare. E non è neanche tanto importante che questa guerra sia combattuta coscientemente, oppure sia soltanto il riflesso per dir così “naturale” di un conflitto di più vasta portata. Ma significativo è che questa “critica della fotografia” vada di pari passo con una più generale “critica” della società occidentale, che si estrinseca nel diverso modo, rispetto al nostro, di concepire la realtà, il tempo, l’esperienza, la presenza.–
Naturalmente il divieto di fotografare non impedisce al visitatore occidentale di riportare dall’Iraq un nutrito carnet di fotografie. A seconda della sua astuzia, bravura, velocità, egli potrà così mostrare al resto del mondo volti, scorci, vestigia, paesaggi iraqeni, ma anche palazzi governativi, ministeri, stazioni e persino ponti teoricamente coperti dal tassativo divieto di essere fotografati. L’esistenza di queste fotografie non vanifica l’interdetto che grava su di esse; anzi, in qualche modo lo fortifica. È infatti proprio la condizione di immagini “rubate” che tutte esse condividono, o anche più semplicemente di immagini “prese” in un momento di disattenzione, o persino di tolleranza, di benevolenza, a definire lo sguardo occidentale nel suo carattere intrinsecamente predatorio, inclusivo, annettivo. È proprio la condizione in cui il fotografo è costretto a operare in Iraq a inchiodarlo in maniera inesorabile alla propria “irresponsabilità” nei confronti del fotografato. Irresponsabilità che ha in Iraq soltanto la sua aperta e piena rivelazione, non certo il suo esclusivo campo di applicazione. È anzi grazie alla situazione di crisi in cui viene posta in Iraq, che la fotografia può e deve mettere in mostra il suo contraddittorio statuto come propria regola più generale.
Ovvio come tale regola risulti ai nostri occhi occidentali alquanto opinabile. Ma è nell’ottica iraqena che dobbiamo continuare a guardarla per comprenderne tutte le diverse sfaccettature. Ed è in quest’ottica appunto – più e meglio ancora che nella nostra – che la fotografia appare nel suo carattere strumentale, non neutrale. Come dunque essa, nell’ottica iraqena, si appropria indebitamente di quanto non le appartiene, così pure essa appartiene di diritto a ciò che le è proprio. È precisamente per questo motivo che a un quasi generalizzato divieto di fotografare si affianca senza contraddizioni in Iraq un altrettanto ferreo “obbligo” di fotografare in situazioni del tutto specifiche. Nei bunker centrati dai missili americani, nei luoghi e nelle occasioni di celebrazione del regime, così come nelle innumerevoli immagini di Saddam Hussein che campeggiano ovunque in Iraq, la fotografia diviene l’arma di una propaganda che sa mettere perfettamente a fuoco i propri obiettivi, e che fa del guardare all’occidentale il proprio sguardo. E non c’è da stupirsi che all’embargo iraqeno sulla fotografia faccia riscontro il suo corso forzoso.
Iconoclastia e iconolatria: volti opposti ed identici di questo inquietante paese.–