Ovvero la lotta degli anziani contro i giovani
di Marco Biraghi
Apocalissi del nostro tempo
E tuttavia, messo in rilievo tutto ciò, risulta forse lecito chiedersi, oggi, in modo auspicabilmente altrettanto profondo e motivato (ma al tempo stesso “disinteressato”, ovvero alieno da interessi o da animosità personali) di quanto fatto trentacinque anni fa da Pasolini, se egli abbia avuto ragione o meno. Non è soltanto la distanza storica a consentirlo: è la stessa analisi condotta da Pasolini a richiederlo in modo quasi impellente. Gennariello, al pari degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, non contengono esclusivamente una diagnosi, ma anche – e in misura consistente – una prognosi. Le constatazioni storiche, in essi, hanno al contempo valore di profezia. E infatti, della profezia a tratti assumono il tono: in più circostanze in quelle pagine ricorre l’evocazione di una punizione oscura e tremenda pendente sul capo di un’intera generazione di giovani: generazione per Pasolini già colpita al presente dalla propria infelicità, «e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile», «in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi».
Difficile dire quali terrificanti minacce egli vedesse addensarsi nel futuro degli adolescenti della metà degli anni settanta (i quindicenni di allora e i cinquantenni di oggi) e dei loro fratelli più giovani. Osservati in prospettiva storica, i rappresentanti della generazione dei “figli” (come del resto quelli delle generazioni venute dopo la loro) non hanno dovuto subire – da un punto di vista collettivo – un destino particolarmente avverso: nessuna guerra, nessuna pandemia (non ancora, almeno), nessuna piaga sociale di proporzioni gigantesche, nessuna calamità naturale dal potenziale distruttivo globale, capaci di spazzar via una o addirittura più generazioni – almeno in Italia, dagli anni settanta ad oggi. Certo, le occasioni distruttive non sono mancate: Pasolini ad esempio parla delle droga come di una «vera tragedia italiana», drammatica spia della «perdita dei valori di una intera cultura». E non è un caso che nel fenomeno della droga egli veda «un fenomeno strettamente borghese», direttamente ricollegabile e conseguente al nefasto (benché al tempo stesso sotto certi aspetti benefico) “sviluppo” consumistico degli anni sessanta.
Visto oggi, il problema della droga non ha perduto la propria drammaticità. Apparentemente meno acuto ed estremizzato, esso è penetrato in compenso in tutti gli strati sociali e ha allargato di molto l’ampiezza delle età che riesce ad abbracciare: praticamente tutte, dalla prima adolescenza alla pena maturità, se non addirittura alla senilità.
Altro tema ricorrente negli scritti di Pasolini è quello della liberalizzazione dei comportamenti sessuali degli italiani, a cui si può far risalire – a partire da un momento successivo alla sua morte, e ovviamente all’interno di un quadro territoriale più vasto, comprendente anche il nostro paese – la diffusione dell’Aids, malattia fortemente legata, almeno nella sua prima fase, a una fascia generazionale, nonché con tutta evidenza a una società sempre più soggetta alla «”falsa tolleranza” del nuovo potere totalitario dei consumi».
Discorso per certi versi analogo potrebbe essere fatto per altre malattie come il cancro, che negli ultimi trenta o quarant’anni hanno conosciuto un vertiginoso aumento di diffusione, infrangendo le tradizionali “barriere” generazionali precedentemente esistenti.
In tutti questi casi non si può tuttavia mancare di rilevare un certo grado di “genericità”. Più che questa o quella sindrome o catastrofe, infatti, ciò che al giorno d’oggi sembra essere davvero “occasione distruttiva”, per tutte le generazioni in modo ormai pressoché indifferente, ma in particolare per quelle più giovani, è ancora e sempre il consumismo (non ci si lasci ingannare dall’apparente obsolescenza di questo vocabolo: dietro il suo programmatico logoramento si nasconde in realtà la perfetta attualità del fenomeno). E occasione tanto più pericolosa in quanto astutamente insinuante: occasione “normale”, quotidiana, silenziosa, invisibile, o meglio piuttosto ottundente.
È dunque la sempre maggiore e capillare diffusione del consumismo – ovvero, la sempre maggior assuefazione ad esso – la causa ultima dei mali peggiori (nonché – non va dimenticato – dei beni migliori) che la generazione dei “figli” e le generazioni seguenti hanno dovuto subire. Da questo punto di vista si può dire che esse continuano a pagare le colpe dei padri, di cui ancora non si sono liberate – e di cui, vi è da presumere, non si libereranno mai.
Il fatto poi di appartenere noi stessi a tali generazioni (perlomeno, tutti coloro che al presente hanno dai cinquant’anni in giù) e pertanto di condividere noi stessi quella colpa, senza riuscire in alcun modo a liberarcene, illumina di una luce affatto diversa la condizione attuale e, dietro l’illusoria apparenza di “normalità”, ne rivela la sostanziale tragicità.
(continua…)
23 dicembre 2009
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