Ovvero la lotta degli anziani contro i giovani
Continuità e passività
In effetti sarebbe difficile immaginare circostanze storicamente peggiori per la generazione dei “figli” e per quelle dei figli dei “figli”. (È forse il caso di parlare a loro riguardo di “destino avverso”? Ma – a ben pensarci – non è forse proprio tale sventurato “destino” il compimento del «futuro terribile» evocato da Pasolini?)
Ma in che senso, poi, peggiori? Per quanto possa apparire paradossale, e addirittura crudamente beffardo, l’assenza di sciagure epocali, con la conseguente fiducia in un (illusorio) ininterrotto progresso, dapprima, e il lento deteriorarsi del panorama complessivo, con l’assuefazione ad un lento ma inesorabile regresso, ai giorni nostri – tutto ciò costituisce la condizione di gran lunga meno auspicabile per far sì che una generazione possa liberarsi di quella precedente, anziché ereditarne passivamente il “carico”: quella colpa dei padri che in tal modo continua a gravare sulle loro (ovvero – come visto – sulle nostre) spalle.
E d’altronde, è proprio la mancanza di qualsivoglia deviazione dal solco storico segnato, ovvero l’insussistenza di qualsiasi “distacco” da esso, la dimostrazione più lampante dell’accettazione dell’eredità della generazione precedente da parte di quelle successive. Tutta la nostra “cultura” degli ultimi trent’anni ha lavorato con cura sollecita in questa direzione, sempre attenta a preservare null’altro che la continuità tra le generazioni, in una sorta d’ideale eppur concretissimo passaggio del testimone. E ciò nient’affatto al fine di una nobile o misericordiosa conservazione delle specie o delle tradizioni, quanto piuttosto in vista di una molto interessata e ben calcolata conservazione del consumatore: particolarissima specie la cui precipua caratteristica è quella – nella perpetua variazione del gusto – di mantenere immutata l’attitudine al consumo. Da ciò deriva la funzione sociale essenziale, assolutamente strategica e addirittura vitale, della salvaguardia dello status quo. A tale salvaguardia non ha mai attentato in questi anni alcun cambio d’indirizzo politico, di maggioranza o di governo, così come negli scorsi decenni non vi ha mai attentato alcuna azione terroristica, di destra o di sinistra che fosse. In materia di conformismo al consumismo i cosiddetti “progressisti” si sono dimostrati non meno “persuasi” dei conformisti conservatori tout court. Cosicché, in questo campo, le uniche e vere differenze si misurano sulla base della capacità d’intendere i processi capitalistici con maggiore o minore intelligenza, non sull’effettiva facoltà di opporsi a essi.
In ogni caso, nessuno “stacco” tra una generazione e l’altra è avvenuto nel corso degli ultimi trent’anni.
Settant’anni fa la guerra, pur con il suo immane carico di tragicità e il pesante tributo di sangue pagato da intere generazioni d’italiani, aveva segnato un’incontrovertibile cesura tra l’Italia fascista e l’Italia della ricostruzione. E se ciò nonostante l’eredità del fascismo ha finito con il conservarsi sotto molteplici forme nel regime clerico-fascista democristiano (come lo stesso Pasolini in più circostanze non manca di rilevare), è tuttavia innegabile che il pur forzato ricambio generazionale abbia giocato un ruolo essenziale nel rinnovamento dell’Italia degli anni cinquanta.
Quarant’anni fa il cosiddetto ’68, pur con tutte le contraddizioni che lo hanno caratterizzato, ha rappresentato il tentativo – non sempre riuscito, o riuscito in modo soltanto parziale ed epidermico – di liberarsi della generazione dei padri: padri in senso letterale, e padri in senso metaforico (insegnanti). Soprattutto in quest’ultimo caso ha avuto luogo – nelle circostanze migliori – una radicale messa in discussione dei fondamenti della cultura offerta da un’intera generazione spesso ancora legata alla società prebellica e fascista. Più che nel ’68 vero e proprio, da questo punto di vista, è stato negli anni precedenti (nelle università milanesi già nel 1963) che gli studenti hanno cercato per la prima volta di confrontarsi con i loro professori non solo sulla struttura rigidamente accademica e autoritaria dell’ordinamento universitario ma anche – in modo più specifico – sull’idea di sapere e sulla sua ricaduta in professioni da praticare all’interno di un mondo in rapida trasformazione. Ciò si è tradotto in una serie di rivendicazioni basilari, quasi al limite dell’ovvio, non fosse stato per la loro indispensabilità e urgenza, e per l’intollerabile scandalo rappresentato dal loro mancato adempimento fino ad allora: tra esse, la richiesta rivolta ai docenti che questi svolgessero regolarmente le loro lezioni, lo sdoppiamento dei corsi sovraffollati, la possibilità per gli studenti di presenziare agli esami dei loro compagni, la libera scelta del relatore e della tesi di laurea, e via discorrendo. Richieste tese – più che a ogni altra cosa – al tentativo di adeguare l’università ai principî di una società concretamente democratica. Ma di per sé bastanti a mettere in crisi il rapporto – e conseguentemente a creare una rottura insanabile – con le generazioni precedenti.
Al giorno d’oggi, al contrario, per motivi altrettanto strutturali che contingenti, le giovani generazioni non hanno alcuna assuefazione alla lotta: né per reagire contro qualcuno o qualcosa che dall’esterno le combatte come un nemico, né per attaccare qualcuno o qualcosa che esse stesse considerano come un nemico. Si potrebbe dedurne che le giovani generazioni sono più mature di quelle che le hanno precedute, che sono ispirate da principî di fraternità, di amicizia o di “pacifismo”, più di quanto non sia mai accaduto prima di loro. Tale ipotesi si scontra tuttavia con quanto quotidianamente testimoniato dalla cronaca, da cui le giovani generazioni (non tutti i giovani, in modo indifferenziato e generico, naturalmente) risultano spesso, se non addirittura «aggressive fino alla delinquenza», come evidenziato da Pasolini, quantomeno sordamente insensibili fino alla crudeltà.
La non assuefazione alla lotta delle giovani generazioni esige dunque una diversa spiegazione. Se infatti aggressività e insensibilità mal si conciliano con la presunta “pacificità” di generazioni che proseguono il loro cammino lungo la strada indicata dai “padri”, queste stesse tendenze non sono invece antitetiche, bensì piuttosto complementari, a un altro carattere distintivo dei rappresentanti di tali generazioni: il loro essere «passivi fino all’infelicità». In questo senso, la continuità con le generazioni precedenti e con il corso storico segnato, rilevata poc’anzi, potrebbe essere interpretata come un ineluttabile segno di passività. E la passività, fra le forme di colpevolezza che contraddistinguono coloro che sono incapaci di liberarsi dell’eredità dei “padri”, secondo la concezione pasoliniana, «non è una colpa minore».
D’altronde, proprio questa incapacità non è forse esclusivo appannaggio delle “giovani generazioni”, perlomeno in Italia. Si legga quanto scrive Umberto Saba (in Scorciatoie e raccontini, Mondadori, Milano 1946): «Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha mai avuta, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. […] Ed è solo con il parricidio (uccisione del vecchio) che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli».
Forse la “regola” italiana sono la passività nei confronti dei “padri” e l’aggressività nei confronti dei “fratelli”, mentre la discontinuità, i rivolgimenti più o meno violenti, costituiscono l’eccezione. Dei due eventi sopra ricordati – la guerra e il ’68 -, soltanto l’ultimo appartiene di diritto alla seconda categoria, ma non può certo essere considerato alla stregua di una rivoluzione compiuta: al più una rivoluzione “tentata”, semplicemente abbozzata, i cui effetti più consistenti si sono fatti sentire proprio sul versante dei comportamenti sociali e del rinnovamento generazionale.
Marco Biraghi
7 gennaio 2010
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