di Marco Biraghi
Una tendenza sempre più diffusa (recente ma in realtà ciclicamente riemergente, come le mode) pone al centro dell’interesse degli studiosi di architettura il cantiere come momento decisivo per la comprensione dell’edificio. Lungi dall’essere la semplice e lineare estensione del progetto, il cantiere è considerato – e certo non a torto – il luogo del farsi concreto dell’opera, e dunque del suo crescere e modificarsi, del suo vivere, insomma il luogo del suo verificarsi come fatto materiale aperto a molte aleae.
Osservando le città in cui viviamo e gli edifici che vi sono sorti negli ultimi anni viene da chiedersi se dell’importanza – della centralità – del cantiere siano stati messi a parte coloro che quotidianamente se ne occupano. Se l’architetto – secondo Adolf Loos – è un muratore che ha studiato il latino, il muratore palesemente non ha studiato né il latino né da architetto. E lo stesso vale per chi dirige i suoi lavori, e per chi li finanzia, nella gran parte dei casi.
Ciò almeno riguarda quanto fatto in Italia. A furia di riempirsi la bocca con la qualità del made in Italy, si è finito per non rendersi conto di come – nel campo delle costruzioni (ma lo stesso si potrebbe dire dei lavori pubblici in generale: si osservi come sono realizzati viadotti, strade, ma anche apparentemente “semplici” giardini cittadini) – i risultati frequentemente deludenti non siano dovuti, nella maggioranza dei casi, a problemi di qualità del progetto: piuttosto alla dozzinalità delle soluzioni, alla povertà dei materiali, all’approssimazione delle esecuzioni (per non parlare della mancanza di manutenzione).
Ci fu un tempo in cui nel mondo il fare italiano era sinonimo di eccellenza. Questo tempo è passato. Oggi, con una frequenza sempre più drammatica, il cantiere italiano è la tomba dell’edificio.
3 maggio 2010