di Gabriella Lo Ricco
Da aprile 2010 il nuovo sito web “Archigram Archival Project” rende disponibile un vasto archivio che raccoglie collages, schizzi, fotografie, articoli, diapositive e progetti realizzati dal gruppo inglese Archigram. Al suo interno è possibile visionare persino le copie complete del magazine «Archigram» – pubblicato dal 1961 al 1974 – oltreché una trascrizione degli scritti contenuti al suo interno ed elaborati dai giovani membri del gruppo, Warren Chalk (1927- 87), Peter Cook (1936), Dennis Crompton (1935), David Greene (1937), Ron Herron (1930-94) e Mike Webb (1937). La raccolta è inoltre ampliata da file multimediali e da interviste elaborate per l’occasione.
Si tratta di una iniziativa interessante sotto molteplici punti di vista.
Innanzitutto perché offre a chiunque la possibilità di visionare e studiare in modo approfondito elaborati progettuali altrimenti difficilmente reperibili.
In secondo luogo per le relazioni che tale operazione intesse con il senso stesso dell’attività portata avanti dal gruppo Archigram: se si pensa alle attuali modalità di consultazione degli archivi di architettura, la scelta di creare un archivio nel web – giustamente definito dalle testate giornalistiche inglesi “di massa” – è in sintonia con quell’urgenza comunicativa e soprattutto con quel carattere rivoluzionario che ha informato, negli anni Sessanta, l’attività e le opere del gruppo Archigram.
Il progetto è promosso dal Centre for Experimental Practice (EXP) della School of Architecture and the Built Environment dell’Università di Westminster e si inscrive all’interno di un programma scolastico più ampio che è volto alla ricerca di «innovative approaches for the design of buildings and cities and imaginary or polemical proposals». In tale prospettiva l’EXP promuove una serie di indagini storiche sul lavoro di progettisti che hanno segnato con il loro lavoro una messa in discussione degli aspetti estetici e concettuali – e degli stessi fondamenti disciplinari – dell’architettura. A tale ricerca si affianca inoltre la volontà di innescare un dibattito critico sulla portata odierna di tali ricerche attraverso una serie di incontri in cui i protagonisti, ove possibile, sono invitati a presentare i loro progetti e a dialogare con un pubblico eterogeneo composto da critici, studenti e professionisti. Oggetto di tali incontri sono stati, nel 2003 il lavoro di Cedric Price, nel 2004 Learning From Las Vegas di Robert Venturi e Denise Scott Brown, nel 2005 il Centre Pompidou di Richard Rogers e Renzo Piano, nel 2005 il Parc de la Villette di Bernard Tschumi, nel 2006 Delirious New York di Rem Koolhaas.
È proprio il programma didattico dell’EXP, unitamente alla diffusione dell’archivio Archigram, a suscitare una domanda: a distanza di cinquant’anni dall’elaborazione delle opere del gruppo inglese, secondo quale prospettiva guardare oggi il loro lavoro?
1) Sicuramente rifuggendo quelle letture volte a riproposizioni esclusivamente linguistiche, che oggi risulterebbero sterili e superficiali. Basti pensare, solo per fare un esempio, alla Kunsthaus di Graz progettata da Peter Cook insieme all’architetto inglese Colin Fournier, e inaugurata nel 2003. L’edificio entra in colloquio con le ricerche condotte negli anni Sessanta in un modo prettamente figurale, e rifuggendo da qualsiasi ripensamento dello spazio espositivo e da una riflessione sul significato attuale “di museo”, segna un netto allontanamento rispetto alle ricerche originariamente condotte da Archigram.
2) Facendo tesoro delle modalità con cui è stato guardato, valutato e assimilato il loro lavoro nel corso del tempo. Numerosi architetti negli anni Sessanta (tra i quali Hans Hollein e Haus-Rucker Co. in Austria, Rem Koolhaas in Olanda o, alla fine degli anni Sessanta, Archizoom e Superstudio in Italia) hanno riconosciuto proprio attraverso i progetti di Archigram i prodromi di una nuova dimensione di problemi con cui si misurava l’architettura. La denuncia di un uso a-politico del progetto, l’ingenuità riposta nell’utopia tecnologica o la consapevolezza della possibilità di avvalersi di tecniche nuove – come la ricerca di mercato o qualsiasi altra strumentazione del tempo – erano riflessioni che scaturivano in quegli anni anche in relazione con i progetti di Archigram.
Quindi il lavoro di Archigram, nei casi più interessanti, non è stato interpretato come una matrice culturale o esclusivamente come espressione di un’utopia tecnologica, ma come ciò con cui porsi, in quanto espressione del proprio tempo, in un confronto dialettico. Un confronto dialettico che è evidentemente scaturito dalla profondità di interpretazione e dalla grande carica inventiva che innervava i progetti e le riflessioni di Archigram. Una produzione che, alimentata dalla volontà di rottura con la coeva produzione architettonica anglosassone, mostrava le ripercussioni che la realtà percepibile agli albori degli anni Sessanta avrebbe determinato nel progetto di architettura.
I mezzi di cui i componenti di Archigram si sono serviti per dar forma ai loro pensieri erano semplicemente quelli che avevano a disposizione. Se si osservano i primi numeri del magazine, si tratta di succinti opuscoli composti da fogli spillati tra loro che venivano diffusi tra conoscenti per far fronte alla povertà concettuale rinvenuta nelle maggiori riviste di architettura dell’epoca. Al loro interno erano presentati progetti di architettura elaborati in occasione di concorsi, di mostre o legati a occasioni contingenti di progetto, testi che ne evidenziavano i riferimenti progettuali, e numerose riflessioni che, scaturite dall’analisi di ciò che li circondava, evidenziavano i cambiamenti degli stili di vita, della cultura e del volto dell’epoca. Ad esempio, in «Archigram 3» del 1963, il cui sottotitolo in modo emblematico è «Magazine of Ideas in Architecture», Michael Webb scrive: «We are becoming much more used to the idea of changing a piece of clothing year by year, rather than expecting to hang on to it for several years. Similarly, the idea of keeping a piece of furniture long enough to be able to hand it on to our children is becoming increasingly ridiculous. In this situation we should not be surprised if such articles wear out within their ‘welcome’ lifespan, rather than their traditional lifespan. The attitude of mind that accepts such a situation is creeping into our society at about the rate that expendable goods become available. We must recognise this as a healthy and altogether positive sign. It is the product of a sophisticated consumer society, rather than a stagnant (and in the end, declining) society. Our collective mental blockage occurs between the land of the small-scale consumer-products and the objects which make up our environment. Perhaps it will not be until such things as housing, amenity-place and work place become recognised as consumer products that can be ‘bought off the peg’ – with all that this implies in terms of expendability (foremost), industrialisation, up-to-date-ness, consumer choice, and basic product-design – that we can begin to make an environment that is really part of a developing human culture».
Al di là del loro grande ottimismo – che chiaramente s’inscrive in un clima anglosassone ancora lontano dalla crisi politica degli anni successivi -, capire e evidenziare le caratteristiche della propria epoca per metterle in relazione con il progetto di architettura, interrogarsi sulle finalità del progetto per proiettarlo nel futuro: questo era ciò che Archigram, con grande inventiva e con uno sguardo lucido e profondo, e quindi lungimirante,”semplicemente” si prefiggeva.
Sito ufficiale: http://archigram.westminster.ac.uk/