Il week end del 29 e 30 maggio ha visto la città di Roma capitale dell’arte contemporanea grazie alla definitiva apertura al pubblico del MAXXI, Museo delle Arti del XXI secolo, progettato da Zaha Hadid e prima istituzione nazionale dedicata alla creatività del nostro tempo, e all’anteprima dell’apertura, prevista in autunno, del MACRO, Museo di Arte Contemporanea di Roma di Odile Decq. Ovviamente la stampa, sia nazionale che non, ha dedicato con anticipo a entrambi i musei articoli, servizi, pagine e pagine – come oggi si usa fare – fino a consumarli prima del tempo. Le immagini che percepiamo ci sono così date prima di vedere l’opera: rappresentazioni non più legate alla nostra percezione e fruizione, ma a quanto invece ci viene raccontato, descritto e proposto da altri. La nostra prima impressione altro non è che un pregiudizio, sia esso negativo o positivo.
Contro questo meccanismo mi sono mossa sabato 29 per visitarli entrambi, con l’obiettivo di scongiurare lo sposare idee altrui, rappresentazioni appunto di una “realtà impersonale”. Per quanto poi abbia creduto fosse impossibile, magari anche scorretto, fare un paragone tra i due e non solo per questioni dimensionali, il doppio incontro ravvicinato mi ha in realtà posto davanti all’inevitabile: nel tornare a parlare di architettura italiana contemporanea il confronto fra MAXXI e MACRO è risultato così d’obbligo piuttosto che significativo.
Il primo nodo da affrontare è quello solito della presunta o meno identità italiana di un’opera. Cosa rende oggi un’architettura italiana? Chiaramente né l’essere pensata da italiani né tantomeno l’essere realizzata in Italia è condizione necessaria e sufficiente affinché la si riconosca come tale. E nello specifico di Roma cosa rende un’opera romana, “della” e “per la” città? Rispondo qui senza alcuna esitazione: il suo esserne parte costituente, legame tra un’individualità precedente e una futura.
Credo risieda proprio qui la differenza sostanziale fra il MAXXI e il MACRO, chiaramente differenza autonoma da qualsiasi discorso dimensionale, gestionale ed economico. Il primo affine alla spazialità romana, fatta di pieni e vuoti, luci e ombre di materia allo stato puro; il secondo invece gioco di superfici, di strati e trasparenze, riflesse e non, più vicino a sensibilità nordiche. Il primo capace di trasformare la nostra idea di architettura a partire da essa stessa; il secondo, al contrario, desideroso di trasformarla importandone una nuova, finendo anche di trascendere da questioni di pensiero. L’appartenenza linguistica, alla base di una qualsiasi e riconosciuta identità, mostra il desiderio di tornare a parlare ai più, all’intera città: il MAXXI restituisce a Roma il suo stretto legame con l’architettura in quanto primo contributo di un’idea di città destinata a trasformarsi nel tempo. Partendo da un’idea di architettura per un’idea di città, la Roma contemporanea del quartiere Flaminio riscatta quella antica e quella moderna: il MAXXI, non solo esponendo Moretti in primissima battuta e più dell’Auditorium a pochi passi da sé, ritrasmette oggi quelle conoscenze necessarie a un’evoluzione. Zaha Hadid ci dona il monolito della nostra odissea di inizio millennio, ma noi, dinnanzi ad esso, più che a Bowman ci sentiamo ancora oggi vicini agli ominidi della prima parte della storia. È allora il ruolo educatore dell’architettura, di cui Roma necessitava e di cui ci si è scordati per troppo tempo, che si palesa chiaramente nella portata di quest’ultima trasformazione urbana, la quale non si limita più a un’area della città ma la coinvolge tutta.
L’architettura deve realizzarsi innanzitutto, in sintonia con il proprio tempo: è dai luoghi che nascono i pensieri, la città imparerà a conoscere, amare e criticare la nuova architettura essenzialmente vivendola. Ma esperienze percettive così travolgenti come queste possono anche nascondere l’assenza di un fine altro: il dubbio che ci rimane invece al MACRO gravita proprio intorno alla presenza o meno di un “perché”. Questo sembra infatti piacerci o non piacerci senza null’altro a pretendere, auto-destinandosi all’essere presto, nel caso in cui già non lo fosse, fuori moda – e non solo per quel suo carattere essenzialmente dark, oltre che a noi estraneo.
È quindi il tempo a rivelare un altro rischio tipico del fare in Italia, dove ce ne vuole sempre troppo: dodici anni per il MAXXI, nove per il MACRO. Il tempo misura inesorabilmente l’architettura e i suoi dintorni. Una decina di anni sono tanti, non tutte le opere riescono a portarli così magnificamente come il MAXXI e Roma questo lo sa: bene basti pensare alla sistemazione del Giardino Romano al Campidoglio di Carlo Aymonino, così lontano dall’architettura contemporanea eppure tanto recente (1996-2005). Ma dietro questa solita decina di anni intercorrenti tra progetto e realizzazione, dodici come detto per il MAXXI, sbandierati a destra e manca come primissimo limite se non addirittura difetto di queste opere romane, in realtà si nasconde oggi per la città un’altra preoccupazione: una volta finito il Nuovo Centro Congressi all’Eur di Massimiliano Fuksas, appartenente alla stessa generazione del MAXXI e del MACRO (era infatti il 2000 quando si concludeva la seconda fase di concorso), così come i due ponti della Scienza e della Musica, su cosa si poserà la nostra attesa negli anni a venire? Cosa inaugureremo fra circa dieci anni?
L’essere ripartiti dallo studio di nuovi modelli di trasformazione urbana per il decennio 2010-2020 non sembra promettere per adesso niente di buono.
di Claudia Tombini
Roma, 02.06.1010