di Chiara Quinzii e Diego Terna
Quando mi svegliai, ero in un letto. Nell’odore familiare del mio letto. Della mia stanza. Però ogni cosa sembrava leggermente diversa. Come se la scena fosse stata ricreata basandosi sui miei ricordi. In tutti i dettagli, perfino le macchie sul soffitto o i graffi sulla calce dei muri.
[Haruki Murakami, La fine del mondo e il paese delle meraviglie, 1985]
Il progetto Milano a pezzi, sei anni fa, si chiedeva quale immagine di sé stesse costruendo Milano, come si stesse sviluppando il racconto del futuro della città. Una città che cresceva per parti, indipendenti l’una dall’altra, senza un coordinamento generale che potesse sintetizzare verso quale meta la città stesse cercando di muoversi. Ogni area oggetto di progetto urbano si comportava come una scheggia impazzita, che costruiva il proprio movimento, un proprio immaginario, senza curarsi di quanto accadeva attorno a sé.
Una Milano a pezzi, dunque, ma fra tutte le possibili tendenze, una emergeva chiara: la periferizzazione del centro, esemplificata nel Modello Esselunga dei P.R.U., piani urbani costituiti da un parco, un supermercato tipo Esselunga, un centro commerciale tecnologico, tipo Mediaworld, ad accompagnare una consistente volumetria residenziale. Nessun servizio pubblico, nessun elemento attrattore per la città. I P.R.U. portavano direttamente in aree centrali un tipico modello da periferia residenziale, vendendo ai cittadini l’immaginario di una casa nel verde, dotata dei confort di prima e unica necessità (il supermercato e la tecnologia) e un collegamento diretto fra l’abitacolo dell’auto e l’abitazione, attraverso una serie di ampi parcheggi sotterranei.
Questa visione della città trovava riscontro nell’elenco degli edifici pubblici costruiti nei dieci anni antecedenti il 2004: uno, il teatro degli Arcimboldi alla Bicocca, per di più costruito come onere di urbanizzazione di un progetto gigantesco, e con lo strascico di polemiche sorte dalla mancanza di un concorso di progettazione.
Sei anni sono passati da allora e pare che il dibattito sulla città abbia preso un certo slancio, sulla scorta della prossima approvazione del PGT, che cerca di proporre finalmente un progetto unitario sulla città di Milano, e sulla forte scommessa lanciata con la candidatura all’Expo del 2015, rivelatasi vincente.
Sei anni fa la nostra proposta fu di intervenire sulla città lavorando su delle aree di possibilità, la cui attivazione potesse essere favorita da un catalizzatore, una linea metropolitana definita come circolare di Milano. Non una novità, certo: già nel 1906 si proponeva una linea protetta che avesse un percorso circolare e non radiale al centro cittadino; un percorso che seguiva il tracciato dei bastioni, salvo una breve deviazione a nord del centro.
Il progetto Milano a pezzi si basava su due concetti fondamentali: la scelta di aree che fungessero da ingranaggi in un meccanismo unitario, un meccanismo che finalmente muovesse la città verso un futuro progettato nella sua interezza; l’uso di aree con forti connotati simbolici, che potessero essere i luoghi dove ancorare i progetti di sviluppo futuri.
Preso atto della tendenza alla trasformazione del centro in periferia o, in altre parole, del rimpicciolimento del centro urbano, sempre più ristretto entro le ex mura spagnole, se non addirittura l’ex cerchia dei navigli, il nostro progetto prevedeva di allargare la visione della città, di raccontare una realtà che era già viva e presente da anni. Milano non possiede un confine marcato, l’area metropolitana si estende con continuità oltre i confini comunali, oltre quelli provinciali. E’ importante, dunque, evidenziare la possibilità di definire percorsi ampi, non necessariamente focalizzati sul centro storico, ma tangenziali ad esso: l’intento del progetto era quindi di dare opportunità di nascita a progetti di interesse urbano non posizionati esattamente nel centro.
L’infrastruttura di base che poteva assolvere questo compito era l’attuale cerchia ferroviaria, che si apprestava a subire notevoli aggiustamenti, dati dall’apertura del passante ferroviario e dai lavori per l’alta velocità, che avrebbero mutato notevolmente le gerarchie dei percorsi ferroviari cittadini.
Dopo alcuni incontri con la Regione Lombardia e la R.F.I. l’ipotesi migliore per costruire una circe line risultò quella di usare una linea di binari ferroviari, allargandosi ad un doppio binario in corrispondenza delle stazioni di fermata. Nel tratto aperto della cerchia ferroviaria si prevedeva l’interramento della linea, ma seguendo il percorso della parte ferroviaria dismessa.
Si veniva così a creare un ibrido fecondo, una metropolitana che correva sui binari del treno, per la maggior parte del percorso all’aperto come un tram. Ogni fermata costruiva poi una sorta di racconto della città intercettata: lo schema del percorso evidenziava infatti possibili mete, spesso desuete, ma che permettevano di scoprire una città dai molti punti di interesse, quello che , a piccola scala, si configurava già come una città multicentrica.
La circolare, la piccola cintura, incrociava dieci aree di possibilità, che avrebbero dovuto costituire le prime “provette” per la sperimentazione di reazioni urbane, un laboratorio di costruzione della nuova immagine di città. Due brevi dichiarazioni riassumevano le aspirazioni di queste aree: “vivere fra” e “no case (cristalli)”.
Contro la logica di costruzione della città come un antitessuto, proponevamo di ritornare ad una logica fertile esemplificata dal patchwork (nelle accezioni descritte da Deleuze e Guattari in I mille piani).
Il “vivere fra” immaginava che gli scali ferroviari di futura dismissione e ridimensionamento potessero essere riutilizzati per proporre un abitare inedito, centrato su fasce di popolazioni che hanno difficoltà (non solo economiche) a trovare l’abitare adatto alle proprie esigenze: city users, fondamentalmente, come potevano essere studenti, sportivi in trasferta, le famiglie che accompagnavano familiari in strutture ospedaliere di eccellenza, business man, viaggiatori.
I “cristalli” proponevano l’arricchimento della città attraverso la costruzione di programmi non residenziali, pubblici, che potessero finalmente costituire una rete di luoghi di interesse non legati al semplice bisogno di passare velocemente dal luogo del dormire al quello del lavoro. Anche in questo caso le aree interessate derivavano da luoghi simbolici all’interno della città: l’ex piazza d’armi, l’ortomercato, l’idroscalo, gli ippodromi di San Siro (aree storiche, le cui funzioni avevano subito sempre un meccanismo di “esternalizzazione” nella città).
Ognuna di queste aree, scali ferroviari e “cristalli”, avrebbero subito un meccanismo di ricambio rapido, che nel 2004 emergeva come una maniera di attuare nella città senza necessità di aspettare il lungo periodo di dismissione. Alla logica Bicocca, quindi, si opponeva la logica Fiera-City Life ma, attuando con una sorta di upgrade, che mantenesse il valore, la storia, le caratteristiche urbane di queste aree, rendendone le funzioni più consone ai bisogni contemporanei (per una spiegazione più approfondita si veda: http://architettura.supereva.com/architetture/20041109/index.htm).
Sei anni dopo questa proposta, ci chiediamo cosa possa rimanere di questo progetto.
Se da un lato appare incoraggiante (anche se sconfortante da un punto di vista strettamente personale) la ripresa di molti temi di Milano a pezzi nel PGT, alcune azioni dell’amministrazione comunale degli ultimi mesi non fanno ben sperare. La nascita dell’Ecopass e la costruzione della rete di Bikesharing, fatti assolutamente positivi, hanno mostrato chiaramente che l’immagine della città rimane racchiusa entro un limite troppo ristretto.
Non è più accettabile che Milano si costruisca, come città, a partire dal semplice e continuo arricchimento di funzioni all’interno della cerchia dei Navigli. Dopo la minirivolta di via Padova, ad esempio, in alcuni commenti politici si definiva la zona di Loreto (una zona con più di un secolo di storia e asse storico di uscita da Milano verso la campagna) come periferica (5 fermate da Piazza Duomo), evidenziando così che l’immaginario costruito nelle menti di chi amministra la città parte da un assunto limitato. La città, così come si è evoluta, non può essere vista come una somma fra il centro storico, rinchiuso paradossalmente nelle mura medievali, e un “fuori le mura” periferico che trova la sua logica nel solo movimento radiale verso il centro.
La città di Milano, oggi, deve necessariamente costruire una serie di realtà di interesse pubblico che favoriscano la complessità di luoghi e situazioni disperse nell’ampio territorio urbano. La Biblioteca Europea, che pare definitivamente abbandonata, era una possibilità di fondamentale importanza: indipendentemente dai giudizi sul progetto architettonico (che comunque è molto interessante e finalmente frutto di un concorso internazionale), la posizione (in un ex scalo ferroviario, tra la cintura ferroviaria e la circonvallazione, lungo l’asse che da Duomo porta a Linate) e la funzione (una grande biblioteca pubblica, che potesse finalmente affiancare le vetuste modalità di fruizione della Sormani e delle altre biblioteche comunali) la definivano come un formidabile elemento di ricchezza nella città, un esempio di come attuare nelle poche aree libere rimaste a Milano. (Ora il timore è che al posto della Biblioteca arrivino altre case e, forse, qualche piccolo servizio, che sicuramente non avrà quel valore e quella importanza del progetto originario).
Questo, purtroppo, non è l’immaginario che si vuole costruire della città. D’altronde la funzione del pubblico, a Milano, perde sempre più la sua importanza.
«L’obiettivo è quello di attivare un piano casa che non si appoggi sul soggetto pubblico, ma che, attraverso un sistema fortemente sussidiario, garantisca un’alta qualità della vita a quelle componenti della popolazione oggi costrette ad abbandonare la città.
Dal punto di vista operativo, il meccanismo che il PGT propone è basato su degli incentivi che favoriscano la realizzazione di nuove quote di edilizia residenziale convenzionata, in vendita ed in affitto o a canone sociale, moderato o concordato, da parte dell’operatore privato».
In questa frase tratta dal Documento di Piano è ben riassunta la visione dell’amministrazione pubblica nei confronti della città: un demandare totale alle operazioni dei privati. Si potrà parlare di una sovrintendenza e un controllo da parte del pubblico, ma sotto agli occhi abbiamo la Milano costruita in questi ultimi anni, fatta di una somma incontrollata di volumi residenziali, a prezzi altissimi, che non attrarranno certo nuove persone in città, ma saranno semplicemente degli investimenti di seconde case o di prime case prestigiose.
Un atteggiamento che non è cambiato, da sei anni a questa parte: anche se alcuni progetti significativi nella città sono stati sviluppati da una minoranza di privati lungimiranti e colti (la nuova, magnifica, sede della Bocconi, la Fondazione Pomodoro, lo Spazio Prada, …), è difficile immaginare che gli altri privati, i cui interventi il Comune non riesce a inquadrare entro un progetto di ampio respiro, perseguano altra logica che non sia quella del profitto.
La circolare di Milano tenta un difficile riequilibrio della situazione, mettendo a fuoco quella che è una realtà differente, fatta di percorsi che si irradiano dall’esterno verso l’interno, ma che possono anche rimanere esterni, senza toccare il centro storico. Un percorso circolare può evidenziare che i bisogni della città non si racchiudono entro il prestigio dei grattacieli di Porta Nuova, ma bensì si aprono verso nuove centralità, che non possono essere il solo ammassarsi di case, ma devono prevedere nuove, contemporanee, funzioni pubbliche, allargando il senso dell’abitare alle funzioni vitali delle persone, e ritornando al senso profondo della nascita della città, ossia il suo essere somma di servizi, stimoli, comodità, luoghi di incontro a volte anche non pianificati.
Milano, 20 giugno 2010