Carlo Aymonino (18 luglio 1926 – 04 luglio 2010)
«Mi sono laureato nel 1950, quindi è da cinquantacinque anni che sono sulla breccia. Durante la mia vita non ho fatto moltissime architetture, però sono molto appassionato e spero perlomeno di riuscire a comunicare qualche cosa su quegli anni, di cui ricordo e non ricordo, e che però in qualche modo tenterò di ricostruirne “l’epoca”.
Ho avuto e ho ancora una serie di “radici” di cui ho condiviso gli interessi, le battaglie, le avventure. Ho avuto anche degli amici architetti, in particolare Aldo Rossi e Guido Canella; il nostro è stato un trio abbastanza determinante nella vita culturale, anche se purtroppo, con la perdita di Aldo, siamo rimasti claudicanti. Ernesto Nathan Rogers è stato uno dei maestri a cui abbiamo fatto riferimento; grazie a lui, che mi ha chiamato come corrispondente romano di «Casabella», sono entrato in contatto con l’ambiente culturale milanese. Per quanto riguarda il sodalizio culturale con Guido e Aldo non ci siamo intestarditi solo sull’architettura. Parlavamo di donne, di romanzi, di pittura, di una vita comune di cui l’architettura era una parte importante ma non totalizzante, come probabilmente oggi si vorrebbe che fosse. E mi ricordo che, quando venne pubblicato su «L’Espresso» il plastico del concorso della mia biblioteca nazionale a Roma, Aldo disse: «Finalmente dell’architettura, la pubblichiamo su “Casabella”!». Questo ricordo, che ancora mi emoziona, è ridotto a dieci dodici persone, incluso anche Rogers… Eravamo un gruppo molto ristretto.
Ricordo quando, sempre negli anni Sessanta, arrivò Oscar Niemeyer a Roma e chiese alla direzione del Partito Comunista di organizzargli una riunione di architetti comunisti – che saranno stati in venti, però sembrava già un bel numero. Organizzammo la riunione con Niemeyer di soli comunisti presso il nostro studio. Lui fece con un carboncino una serie di schizzi, uno appresso all’altro, girava il foglio, una cosa strepitosa, tutti applaudimmo, poi domande… Lui rispondeva sempre: «Concreto lo permite», grazie, aveva i suoi calcolatori! Quando Niemeyer è andato via, abbiamo preso tutti i suoi disegni, abbiamo fatto una bella pallottola e l’abbiamo buttata! Adesso mi mangio le mani… Sono vicende aneddotiche che però danno l’idea di dove e come eravamo.
Era una società ridotta, molto intensa, di facili scambi, si sapeva da un giorno all’altro quello che avveniva per il mondo, nel mondo dell’architettura, naturalmente. Oggi è un mondo diverso, per le possibilità di viaggiare, di muoversi, di comunicare… Roma-Milano erano otto ore di treno. Tuttavia, attraverso questi limiti, c’era un’intensità del fare, dell’inventare, e questo è un altro discorso dovuto al fatto del numero esiguo. Quando io mi sono laureato, eravamo diciotto in tutto: ero felicissimo. Quella era la misura e per questo motivo era anche abbastanza semplice scambiarsi tutte le novità, le impressioni. Nella mia formazione si innestano tra di loro varie influenze. Innanzi tutto dei fattori ereditari: il cugino diretto di mio padre era Marcello Piacentini e proprio dietro suo consiglio mi sono iscritto alla facoltà di Architettura – mio padre mi fece frequentare il suo studio nel 1944 per capire se avevo delle capacità per diventare architetto. In secondo luogo non posso non menzionare la mia propensione per le arti figurative; infatti, l’alternativa all’architettura era quella di continuare la mia militanza come pittore. Ma la cosa più determinante è stata la facoltà stessa.
Mi sono iscritto alla facoltà di Architettura nel dicembre del 1944. In quegli anni la facoltà era in subbuglio: attraverso Mario De Renzi e Ludovico Quaroni si stava rinnovando. Ho legato con un gruppo di agguerriti comunisti contrari alla presenza in facoltà di Enrico Del Debbio, perché era consigliere fascista, e contrari alla partecipazione di Piacentini – che è rientrato soltanto all’ultimo anno. Sicuramente questa esperienza mi ha fatto perdere tutte quelle occasioni che potevo trovare in Piacentini, ma nel complesso mi ha molto influenzato positivamente.
In quegli anni Giorgio Calza Bini, Piacentini, Edoardo Detti, Luigi Piccinato erano molto più fortunati di noi oggi: erano tre o quattro gli architetti che decidevano in tutta Italia. Piacentini, ad esempio, nel suo studio aveva una pianta del globo, con segnate in rosso tutte le opere che aveva seguito nel mondo. Certo che era professionalmente più avvantaggiato di me, però credo che nell’insieme, da un punto di vista socio-culturale, oggi siete molto più fortunati.
Oggi tocca a voi cambiare la società, noi l’abbiamo già cambiata. Se obiettate che però oggi le più importanti commissioni sono monopolizzate da grandi studi e che l’architettura ha perso quella carica sociale, obietto con l’esempio di mia cognata, Daria Ripa di Meana, che ha anche lei settant’anni, e che allora ne aveva ventisei: era andata negli Stati Uniti a lavorare dai SOM e doveva dipingere le pareti di rosa, rosa chiaro e rosa scuro! Ha fatto solo questo per un anno e mezzo, poi si è stufata ed è tornata in Italia. Le condizioni nel singolo settore probabilmente oggi sono peggiori, però nell’insieme non si può fare un paragone con quegli anni. Si può dire: «Ma siamo tutti disoccupati», certo. Però tenete conto che siete almeno duecento-trecento per ogni anno mentre noi eravamo ventidue.
Non dico che avete ragione voi o noi, però voglio dire che dovrebbe sollecitarvi, anche facendo una cosa alla francese, sfasciando le cose, però avendo l’idea che siete molto più avvantaggiati nell’insieme. Tutti voi avrete dei motorini per esempio; io, ed era una grandissima novità, ho portato la mia prima moglie a partorire in Vespa.» […]
di Carlo Aymonino
[Il presente testo proviene dalla conferenza tenuta da Carlo Aymonino il 16 novembre 2005 presso il Politecnico di Milano. Il testo integrale è pubblicato in Italia 60/70. Una stagione dell’architettura, Il Poligrafo, Padova 2010]