di Marco Biraghi
Renzo Piano che dorme; Renzo Piano che beve; Renzo Piano che sorride; Renzo Piano che guarda in giù; Renzo Piano che prende un taxi; Renzo Piano che scrive; Renzo Piano con uno stivale in mano; Renzo Piano col caschetto; Renzo Piano col berretto; Renzo Piano che abbraccia un albero…
E inoltre: le immagini raccolte nel tempo da Renzo Piano; le testimonianze di chi lavora con Renzo Piano; le voci di chi abita in una casa di Renzo Piano…
Questo e altro ancora contiene il “diario polifonico e visivo” pubblicato sul numero 497 della rivista “Abitare” nel novembre 2009. Titolo: Being Renzo Piano.
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Novembre 2010: esce il numero 507 di “Abitare”. Titolo: Being Norman Foster. In esso il lettore può osservare, tra le altre cose, Norman Foster all’aeroporto di Pechino; Norman Foster che prende appunti; Norman Foster che discute; Norman Foster che guarda dei modellini di aereoplani; Norman Foster in bicicletta; Norman Foster in automobile; Norman Foster in elicottero; Norman Foster in giacca verde; Norman Foster in giacca arancione; Norman Foster in giacca viola…
Il tentativo che anima questa serie di numeri speciali dedicati a un architetto è certo lodevole. È evidente lo sforzo fatto da “Abitare” per riavvicinare l’architettura contemporanea all’esperienza concreta, per riportarla alla realtà, alla specificità della professione (rapporti con la committenza, organizzazione dello studio, ecc.), e persino per traghettare le cosiddette “archistar” fuori dal mito in cui sono spesso rinchiuse, presentandole nella loro quotidianità e umanità.
Tuttavia l’ossessiva concentrazione sul personaggio Renzo Piano, sul personaggio Norman Foster, rischia di generare l’effetto contrario. L’esasperata soggettivizzazione distoglie l’attenzione dalla questione principale: ci interessa Renzo Piano, ci interessa Norman Foster, oppure ci interessano le loro architetture? Personalmente non ho alcun dubbio sulla risposta.
Ma – si obietterà – non è tutto. Nei numeri di “Abitare” citati c’è molto altro oltre alle “figure” degli architetti: ci sono testi scritti di loro pugno sui propri edifici, ci sono fotografie dei loro edifici, schizzi, dettagli costruttivi, e così via. In effetti, c’è un po’ di tutto: tutto, fuorché una sola parola che provi ad affrontare criticamente ciò che la rivista presenta, che faccia il tentativo d’interpretarlo.
All’interno di fascicoli tanto ricchi e corposi un tale vuoto critico procura un qualche disagio. Precisamente un disagio, un vero e proprio imbarazzo, d’altronde, sembra essere quello che il “troppo-pieno” dei suddetti fascicoli cerca abilmente di dissimulare: imbarazzo nell’esprimere un giudizio, nell’assumere una posizione.
Questo imbarazzo – sia ben chiaro – non è imputabile alla rivista “Abitare” in generale, che anzi negli ultimi anni si è distinta, all’interno della pubblicistica italiana di architettura, per l’impegno nell’aprirsi al dibattito internazionale e nel dare voce a realtà solitamente trascurate. È tanto più curiosa allora – proprio a partire da ciò – la scelta fatta nel caso dei numeri dedicati a Renzo Piano e Norman Foster.
Il silenzio critico che regna dietro le immagini fotografiche, dietro i dettagli tecnologici, dietro le descrizioni, dietro le interviste, dietro i diari, è il segno evidente non certo di un’incapacità quanto piuttosto di una programmatica mancanza di volontà di infrangere il quadro che gli architetti in questione intendono tratteggiare di sé, e al quale la rivista si limita a fornire una cornice.
Forse un dispiegamento di forze organizzative ed economiche ragguardevole qual è quello profuso nei fascicoli in questione potrebbe – dovrebbe, ci permettiamo di suggerire agli amici di “Abitare” – essere l’occasione per inserire il lavoro degli architetti trattati all’interno di un più ampio quadro di riferimento, per mettere le loro opere in rapporto ad altre opere, per effettuare analisi e sintesi – in una parola, per conferire una prospettiva ai fenomeni, facendoli convergere in una visione storica.
Per evitare che il silenzio si trasformi in un muto patto di alleanza, ovvero in una complicità: quella, tanto diffusa in pressoché tutti gli ambienti italiani “che contano”, che nega la possibilità di un reale confronto, e dunque – in ultima analisi – di una comprensione e di un avanzamento effettivi.
22 novembre 2010