Progettare per non essere progettati: Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi e l’architettura

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di Caludia Tombini

Mercoledì 6 ottobre, a sei anni dalla morte di Jacques Derrida, Maurizio Ferraris gli dedica un articolo su “la Repubblica”, Perché ci serve ricostruire Derrida, anticipando così il seminario dell’8 ottobre all’Istituto italiano degli studi filosofici di Napoli: “Ricostruire la decostruzione”.

 

Perché ricostruire la decostruzione? E cosa significa ricostruire la decostruzione?

 

Leggo con grande interesse che lo stesso Derrida negli ultimi tempi, prima di lasciarci, esprimeva la propria preoccupazione per gli effetti collaterali del suo pensiero: la volontà di decostruire la contrapposizione tra vero e falso si sarebbe infatti realizzata nel mondo mediatico, dove i fatti tendono ormai a dissolversi nel mare delle interpretazioni.

 

È chiaro che nel suo ricostruire la decostruzione per fornirne una nuova versione costruttiva e positiva, Derrida abbia colto prima di altri i limiti del postmoderno, così come è altrettanto chiaro, a mio avviso, che nella nuova versione costruttiva, la decostruzione non venga abbandonata ma si trasformi a partire proprio da se stessa. Penso quindi adesso all’opportunità persa non avendo partecipato alla giornata di studi a Napoli, e non solo per la portata dell’argomento in sé ma anche per la possibilità di trovare risposta o conferma ad alcune mie perplessità sorte invece a seguito di un’altra giornata di studi, quella dedicata a Giulio Carlo Argan e a Bruno Zevi tenutasi il 28 settembre al MAXXI di Roma.

 

Il parallelo sorge spontaneo per più di un motivo. Innanzitutto perché, per quanto Argan e Derrida non appartengano a pieno titolo al mondo dell’architettura, non si può in alcun modo limitarsi a considerarli collaterali a esso. In secondo luogo, poi, questa appartenenza nasce da un identico movente: l’architettura deve avere un senso, partire da un principio o da una finalità non solo architettonica. Terzo, perché se per Derrida il lavoro pratico è pensiero, per Argan – e così pure per Zevi – il pensiero è senza dubbio lavoro pratico, azione. In stretta relazione a questi tre motivi vi è infine la questione della responsabilità, che tutti li comprende e li genera.

 

Progettare per non essere progettati: Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi e l’architettura: questo il titolo del convegno internazionale promosso dal Comitato Nazionale Giulio Carlo Argan e dalla Fondazione Bruno Zevi, a cura di Ada Chiara Zevi e Claudio Gamba, con l’intento di valutare storicamente il contributo critico dei due autori e per verificarne una possibile partecipazione ancora attiva all’interno del panorama odierno. In linea generale si può sintetizzare dicendo che la giornata ha visto corrispondere a due momenti principali – quello di analisi, con diversi e numerosi interventi, durato praticamente quasi tutta la giornata, e quello di verifica finale, purtroppo troppo breve – due diverse tipologie di interlocutori. Se infatti nel corso della giornata, nel corso di quello che ho appunto definito momento di analisi, si sono ascoltati gli interventi di storici, critici, professori e ricercatori, nonché amministratori pubblici, grazie anche al ruolo di sindaco della città di Roma svolto da Argan, è solo nella parte finale che è stata data la parola ai progettisti, chiamati in causa proprio in quanto tali, per cercare una possibile presenza del pensiero di Argan e di Zevi nel loro lavoro.

 

Come sempre in un convegno di questo tipo si può non concordare con tutto quanto udito; ma non sempre, come in questo caso, si esce con un’impressione così amara come quella che le conclusioni mi hanno lasciato. Personalmente mi sono detta infatti: peccato.

 

Tornando al parallelo fatto in precedenza partendo da Derrida, la prima cosa che ha stonato nelle conclusioni è stato proprio il sottolineare la non appartenenza di Argan al mondo dell’architettura, quasi a volerne dimostrare un certo limite, anche rispetto a Zevi. Mentre quest’ultimo – ha sostenuto Piero Sartogo – è un architetto, storico e critico di architettura, il primo è innanzitutto storico e critico d’arte. Un approfondimento sarebbe stato quanto meno doveroso. Personalmente dissento da ciò perché dovrei riposizionare non solo Argan ma molti altri, tra cui anche lo stesso Derrida, chi in un verso e chi nell’altro; secondo, perché la distinzione la farei piuttosto tra progettisti e non progettisti: non tutti gli architetti infatti sono progettisti, e viceversa. 

 

Per quanto non architetto, Argan ha sempre progettato. Il suo progetto, così come esposto nell’intervento di Massimo Cacciari, è una strutturazione, una coscienza strutturante: un’intenzionalità che si muove dall’esperienza e non dal desiderio, come Argan stesso la definisce, coscienza in quanto senso di responsabilità. Come si legge in Progetto e destino: “si progetta contro la pressione di un passato immodificabile affinché la sua forza sia spinta e non peso, senso di responsabilità e non colpa”. È all’interno di questa etica della responsabilità, così definita da Cacciari, che va inserito allora il titolo stesso della giornata di studi: Progettare per non essere progettati. Il progettare in quanto atto intenzionale è inscindibile dal concetto di responsabilità, mentre per contro l’essere progettati, il farsi progettare, nella sua accettazione di uno stato di fatto non sempre voluto o scelto, rimanda comunque a forme di deresponsabilizzazione che oggi, non solo in architettura, costituiscono il vero rischio del nostro tempo. Quello stesso pericolo e limite del postmoderno per il quale Derrida stava ricostruendo la decostruzione e da cui, già a fine anni ottanta, Daniel Pennac metteva ironicamente in guardia con il suo Benjamin Malaussène, di professione “capro espiatorio”. Parlare di un’etica della responsabilità oggi è allora anche una presa di posizione nei confronti di un'”etica” che chiamerei della deresponsabilizzazione, un’attitudine che ci vuole, da ormai troppo tempo, progettati.

 

Ma nella difficoltà a distinguere un postmoderno in architettura da un postmoderno in senso lato è facile trovare anche la difficoltà a leggere non solo l’attualità di un pensiero d’azione come quello di Argan e di Zevi, ma la base stessa del pensiero. Paolo Desideri, altro progettista invitato a concludere la giornata, consiglia addirittura di “lasciar perdere il termine postmodernità, che in architettura è ambiguo” (sue testuali parole), quasi non parlasse a una platea di soli architetti e critici dell’architettura, facendo venire la voglia di porgli almeno una domanda: e dove sarebbe questa ambiguità oggi, ancora in bilico tra cifra stilistica e pensiero?

 

Essendoci liberati per fortuna già da tempo di questo genere di ambiguità, possiamo ringraziare Sergio Pace che, a premessa del suo intervento, con grande ironia, ci ha ricordato invece la coesistenza di diverse idee di modernità piuttosto che l’esistenza di un’unica modernità contro una postmodernità, il tutto sfottendo anche se stesso per il suo definirsi postmoderno in quanto semplicemente allievo di Paolo Portoghesi.

 

Il riportare l’atto creativo dal limbo dell’inconscio al terreno responsabile delle scelte, come ha insegnato Bruno Zevi, non sembra più essere possibile infine per Franco Purini il quale utilizza concetti, anche alquanto consumati, quali griffe, firma dell’architetto stilista, per parlare di una presentificazione degli eventi che rende ormai impossibile la formazione e l’esistenza di una distanza critica. Nel tentativo di non voler negare del tutto la possibilità di ripartire dal pensiero di Argan, Purini finisce però per tradirsi quando, nell’indicare la necessità di una sua traduzione per adattarlo al presente, rivela la sua contraddizione di fondo. In assenza di distanza critica, in un tempo senza passato né futuro, quale traduzione di Argan sarebbe mai possibile? E in una logica di adattamento al presente quale definizione si potrebbe mai dare alla parola “progetto”?

 

Così il convegno finisce senza una vera e propria conclusione, come purtroppo spesso accade. Ma quello che colpisce di più nel ripercorrerlo è che siano stati proprio i progettisti a mettere in dubbio, se non addirittura a negare, una possibile militanza attuale del pensiero di Argan e di Zevi: militanza che a me pare invece oggi inevitabile, se non altro all’interno di quell’etica della responsabilità di cui si è parlato in precedenza. Tornare oggi a parlare di Argan e Zevi altro non è che riconoscere, anche  a noi stessi, la necessità di partecipare criticamente e attivamente al nostro presente – ma in realtà anche al passato, più o meno prossimo.

 

Laddove invece non volessimo militare il pensiero dei due autori, bensì prendere distanza da esso, dovremmo perlomeno riconoscere l’impossibilità a circoscriverne gli effetti in un dato tempo, e tornare immancabilmente a chiederci di fronte a quale avvenire e memoria si è responsabili nel nostro agire. È allora nuovamente a Derrida cui è necessario rivolgersi: «Qualsiasi progetto concernente il destino di una città, vale a dire ciò che lega la sua memoria al suo presente e al suo avvenire scavalca per delle ragioni essenziali e la possibilità del compimento e la dimensione di una generazione, perfino di una nazionalità o di una lingua. Il tempo implica una promessa che impegna qui più di una generazione, e dunque più di una politica, più che la politica, in una durata la cui eterogeneità, perfino la discontinuità, la non-totalizzazione devono essere accettate come legge» (Generazioni di una città: memoria, profezia, responsabilità, 1991, in J. Derrida, Adesso l’architettura, Libri Scheiwiller, Milano 2008, p. 255).

 

Il mio tentativo di restituire una “dimensione” a quel vuoto lasciato nel finale del convegno dai progettisti non fa altro che sottolineare l’importanza e l’urgenza di tornare a parlare di Argan e di Zevi, con Argan e con Zevi. Ecco allora che il bilancio del convegno torna a essere positivo, malgrado l’amaro in bocca per le sue conclusioni.

 

02.11.2010

 

[Il convegno internazionale “Progettare per non essere progettati: Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi e l’architettura”

si è tenuto a Roma presso l’Auditorium del MAXXI, il 28 settembre 2010]