L’indice destro dello Zio Sam era monito e invito; il maiuscolo poco più in basso recitava ovviamente “I WANT YOU”, richiamo alle armi del “sistema della comunicazione dell’architettura” per reclutare dodici nuove leve.
La rivista d’architettura «L’Arca», diretta da Cesare Maria Casati ed edita a Milano, come da piano editoriale 2009/2010, cercava, per mezzo di un concorso lanciato nella rete web del mar piccolo del Politecnico di Milano, un guest editor cui affidare le prime 32 pagine del numero di settembre 2010.
Nessuno dei dodici selezionati avrebbe mai pensato che proprio fra le domande del bando, che interrogava su quali fossero le cinque opere ritenute più esemplificative degli ultimi anni e quali i nomi da ascrivere nel gotha dell’architettura contemporanea, si celasse la risposta che la rivista avrebbe voluto traghettare con l’arrivo dell’autunno. Intento condiviso dai dodici arruolati è stato, fin da subito, di non voler salvare su quell’arca nemmeno una di queste architetture. Da salvare c’erano invece un pensiero, una capacità di osservazione e riflessione che si sono sentiti sottovalutati – ciò che ha dato vita a iniziali contrasti con il direttore e con parte della redazione.
Proveniendo da facoltà come quelle di Architettura del Politecnico di Milano, in cui il “progetto” è ciò che muove ogni speculazione intellettiva ma tutto sommato è poco “praticato”, e all’interno di un panorama editoriale dove il render e la rappresentazione tridimensionale verosimile mascherano problematicità e interrogativi preprogettuali, parlare di “invisibilità” ci sembrava l’unica strada possibile.
Forse già disincantata, o ancora troppo idealista, questa generazione di neolaureati o studenti prossimi alla laurea è stata tacciata di poco entusiasmo per la professione e irriconoscenza verso i valori universali della bellezza e i canoni classici dell’estetica. Invece, chi quelle pagine le ha discusse, scritte e impaginate era mosso dalla più viva delle passioni: sollevandoci da qualunque tono sovversivo e astenendoci dal giudizio, volevamo a ogni costo cogliere l’occasione che ci era stata concessa per lanciare un messaggio, che lo studente d’architettura suicida con una squadra e morente sui “classici” della materia esemplificava fin dalla copertina: è necessario osservare anche ciò che non è reso evidente, perché questo corso di studi che toglie energie e spesso lascia insoddisfatti può portare a disimparare a pensare, ad accontentarsi degli stimoli ricevuti senza sviluppare curiosità verso l’inesplorato, il non pubblicato e il non discusso.
La nostra architettura è anche immateriale, una performance, un’opportunità, una sfida, ma resta pur sempre indagine ed è così concreta, estremamente reale. Abbiamo provato, forse deludendo le aspettative, a testimoniarlo pubblicando opere incompiute con un potenziale tutto da svelare, riscoprendo architetture che la quotidianità ha svilito, indagando il rapporto tra creatività e tecnologie e prendendo atto che la città informale esiste ancora.
Ci è stata data, però, piena libertà di parola e di questo, oltre che dell’opportunità concessaci, dobbiamo ringraziare il direttore, stupito come noi che il Politecnico abbia ben poco pubblicizzato il numero 261 de «L’Arca» che, qualsiasi sia la conclusione a cui è giunto chi ha voluto leggerlo, resterà a documentare un certo disinteresse verso iniziative “altre” e, soprattutto, le preoccupazioni e lo straniamento di chi di quel Politecnico frequenta aule e corridoi.
Federica Blasini
Milano, 10 novembre 2010