di Marco Biraghi
Ho appena “sfiorato” l’occupazione della Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano, svoltasi nei giorni scorsi. È accaduto in due circostanze – una più rapida e superficiale, l’altra un po’ più approfondita, prolungatasi per qualche ora. Non ho avuto modo di sentir parlare gli studenti riuniti in assemblea, né ho avuto il tempo per discutere con loro le tematiche legate all’occupazione. Non entrerò dunque nel merito delle ragioni che li hanno spinti a occupare – e non perché queste non siano sufficientemente profonde, motivate e condivisibili.
È evidente in ogni caso che gli occupanti hanno il mio appoggio e la mia simpatia.
Qui mi limiterò soltanto a qualche breve considerazione sulla base di quanto ho visto e percepito. So che nel corso dei dieci giorni circa che è durata l’occupazione gli studenti hanno svolto alcuni laboratori sotto la guida di ricercatori resisi disponibili per l’occasione, e ho anche assistito a qualche frammento dell’attività laboratoriale. Non sono in grado di valutare quali siano stati gli esiti di tali attività, ma i colleghi che vi hanno partecipato mi hanno manifestato la loro moderata soddisfazione.
Quello che ho colto aggirandomi per gli spazi della Facoltà occupata e osservando gli studenti occupanti è innanzitutto la civiltà con la quale tutto si è svolto. Certamente non saranno mancati, nel corso delle giornate e delle nottate, i momenti di tensione, di disordine, di abbandono a pulsioni più “primordiali”. Tuttavia nel complesso ciò che emerge vistosamente sono il senso di rispetto e l’educazione. La regolare pulizia dei pavimenti, il rispetto del divieto di fumare negli interni, l’efficiente organizzazione della cucina, la regolamentazione delle vendita delle bevande, sono tutti elementi che testimoniano di un controllo – e di un “autocontrollo” – della situazione secondo le regole di una convivenza civile che questi studenti palesemente portano con sé come un gene del proprio DNA, e non soltanto come un attestato di fedeltà allo “statuto” della Facoltà cui molti di loro appartengono.
L’altro aspetto percepibile è quello dell’impegno degli studenti: non il loro “impegno” come s’intendeva una volta, in senso politico, quanto piuttosto la loro disponibilità a darsi da fare, a lavorare (e dico intenzionalmente lavorare, e non studiare, perché quanto ho visto corrisponde assai più a questa prima idea che non alla seconda). Sovvertendo radicalmente l’immagine stereotipata degli studenti occupanti come studenti scansafatiche, “scioperati”, gli studenti della Bovisa sono stati impegnati, occupati per molte ore al giorno, compresi il sabato e la domenica: dimostrazione che all’odierna scarsità di offerte di lavoro corrisponde non certo un’assenza di volontà o di dedizione, e che la richiesta di lavoro da parte dei giovani è non soltanto legittima ma anche tutt’altro che velleitaria. Questi studenti – e gli studenti in generale – vogliono lavorare, in università e anche fuori, e l’occasione dell’occupazione sembra essere stata utilizzata per esercitarsi produttivamente in tal senso.
Ma lavorare in che modo? Ho visto gli studenti discutere nei laboratori insieme ai ricercatori che li seguivano, ma soprattutto ho visto gli studenti impegnati in attività individuali, ciascuno davanti al proprio computer: un’immagine consueta, al giorno d’oggi, in università, ma anche nei locali pubblici, sui treni, ovunque. Ma un’immagine più sorprendente in una Facoltà occupata – o almeno, sorprendente per me. Non che sia mancato il confronto collettivo, come ho appena detto (e, come ho detto già in precedenza, non ero purtroppo presente nei momenti in cui tale confronto si è svolto nelle sue forme più politicamente canoniche: gruppi di discussione, dibattiti, assemblee). Ma accanto a questi momenti, quasi a costituire l’effettivo collante dell’attività degli occupanti, vi è comunque l'”evento” centrale del lavoro individuale, mononucleare, il lavoro svolto dentro la “bolla” del computer, aperta al mondo intero ma di fatto estraniata all’ambiente immediatamente circostante.
Tra le iniziative organizzate nel corso dell’occupazione, su un cartellone appeso al muro (un tempo lo si sarebbe chiamato tazebao) gli studenti della Bovisa hanno scritto le cose che vorrebbero in un’università che “ci piace”. Nelle loro scritte nessuna traccia di ideologia, ma pure nessuna traccia (o quasi) di coscienza politica. Al di là di una sana ironia e di un’immancabile gogliardia, vi è molto pragmatismo, molto “buon senso” nei desideri degli studenti. Ma nulla che li unisca idealmente, nulla che ne faccia una comunità in senso effettivo, e non soltanto un gruppo di individui che si ritrovano per un certo periodo a spartire determinate esperienze.
Se l’occupazione degli spazi universitari – oggi più che mai pacifica, educata, civile – può ancora essere assimilata a una sorta di piccolo esperimento sociale, a una piccola prova di un futuro un po’ più desiderabile di quanto non riesca a esserlo il tempo presente, a una piccola – tra molte virgolette – “utopia realizzata”, sia pure condotta con mezzi limitati e per la durata di pochi giorni, allora i segnali che emergono dall’occupazione della Facoltà di Architettura Civile vanno valutati con la dovuta attenzione. Da un lato il mutuo rispetto e la propensione per il lavoro; dall’altro la tendenza all’individualismo. E su tutto, l’assenza di una posizione politica che sia, non dico unificante ma quantomeno capace di esprimere la condivisione di altri punti che vadano oltre quello della contrarietà alla riforma Gelmini.
La risultante è un encomiabile tentativo di mettere a confronto le differenze, e possibilmente di farle convivere, ma anche – al tempo stesso – l’accettazione della loro irriducibilità reciproca, il riconoscimento dell’essere rinchiusa ciascuna nella “bolla” della propria separatezza.
Ciò che l’esperimento dell’occupazione ci consegna è un modello tutto sommato positivo, da sostenere e incoraggiare, di coesistenza delle diversità (e non perché vi si riconoscano tutti bensì perché tutti in una certa misura le tollerano, o perché semplicemente vi sono indifferenti). Ma insieme un modello che fa dell’alienazione contemporanea un fattore fondante, apparentemente non superabile.
In quanto specchio, riproduzione di un’immagine appena un po’ deformata della società attuale. In quanto sfera di cristallo in miniatura, prefigurazione della società che ci attende in futuro.
14 dicembre 2010