di Marco Biraghi
Le conferenze sono momenti – almeno potenzialmente – di un certo interesse, nei quali a volte capita d’imparare qualcosa, o anche semplicemente di confrontarsi con mentalità, impostazioni culturali, visioni del mondo differenti. Non sempre accade, naturalmente. In molte circostanze ci si annoia. E allora rimane sempre la possibilità di alzarsi e andarsene, specialmente se non si è tra gli invitati a parlare.
Qualche giorno fa ho assistito a una conferenza di tre architetti italiani, introdotta e moderata da un critico di architettura, anch’egli italiano. L’ho fatto perché avevo necessità di parlare con uno dei tre architetti, e ho approfittato dell’occasione per sentire che cosa avessero da dire su se stessi e sull’attuale situazione italiana i quattro invitati.
Non dirò nulla dei progetti presentati dagli architetti. E non perché di essi non ci sia nulla da dire, nel bene e nel male. L’aspetto che più mi ha colpito – in senso negativo – è stato piuttosto il livello scandalosamente basso del discorso di due dei tre architetti, e dell’ancora più infimo livello – se possibile – del critico.
Non sto parlando di divergenze di opinioni, di disaccordi di natura metodologica, filosofica, o estetologica. Sto parlando di povertà lessicale, di sconclusionatezza sintattica, di surrealtà grammaticale. E ciò sia detto di persone tutte laureate, per quanto presumibilmente in architettura.
Se dedico uno spazio di riflessione a tutto ciò non è per criticare questa o quella persona (tanto più poi che non ne faccio i nomi), né per condannare in modo sommario la categoria degli architetti e dei critici italiani. La ragione è un’altra. È che povertà lessicale, sconclusionatezza sintattica e surrealtà grammaticale mi sono parse non generare alcun imbarazzo tanto nei relatori intervenuti quanto nelle persone convenute ad ascoltarli. E se nei primi mi è sembrato di riscontrare una certa protervia, quasi una sfrontatezza nel modo di ostentare il proprio analfabetismo, nelle seconde ho colto invece una sorta di insensibilità, di indifferenza, fors’anche di assuefazione, di fronte a una tale manifestazione di pochezza culturale e intellettuale.
L’effetto è risultato acuito dal fatto che il terzo architetto intervenuto (quello con il quale dovevo parlare) ha messo in mostra come di consueto la propria solida cultura e la propria brillante capacità argomentativa, espresse con perfetta proprietà linguistica e con abilità discorsiva: tutte qualità che gli sono valsi gli sguardi vacui e annoiati del pubblico (composto per la gran parte da studenti). Vale forse la pena aggiungere che l’architetto in questione ha trascorso gli ultimi anni all’estero.
Quali conclusioni desumerne, al di là delle considerazioni strettamente legate alle qualità delle persone? Una su tutte: dopo anni e anni di lavoro ai fianchi della società italiana compiuto attraverso il progressivo smantellamento della scuola e dell’università, e la loro sostituzione con una totalizzante subcultura televisiva, l’analfabetismo non è più qualcosa di cui vergognarsi, e di cui conseguentemente cercare di liberarsi. Nell’Italia di oggi l’analfabetismo è ormai elevato a modello culturale.
Marco Biraghi
21 gennaio 2011