di Patrizia Pisaniello e Saverio Pisaniello
Facciamo un salto nel passato. Pausania afferma che si può dare il nome di “città” ad un raggruppamento di costruzioni che non possiede né edifici amministrativi, né ginnasio, né teatro, né piazza pubblica, né fontane alimentate da acqua corrente. Così la definizione di città secondo Pausania, è anteriore alle costruzioni di edifici pubblici e risiede nel rapporto sociale che persone o gruppi riescono a determinare fra loro. Così, una città è tale prima ancora che sia costruita e non è tale soltanto perché sono sorti edifici pubblici. Una città è, o poteva essere, prima ancora che fosse posta la prima pietra.
Attualmente la domanda di città si contraddistingue come processo, in cui nuove strategie di trasformazione sostituiscono gli assetti programmabili finiti, strategie tese all’interpretazione delle esigenze di una comunità in divenire per la quale lo spazio, è supporto per manifestare le emozioni al di là delle funzioni e degli standard. Diventa perciò palinsesto in continua evoluzione. Così allo spazio urbano strutturato sulla base dei bisogni si sostituisce, una qualità dello spazio urbano da costruire su i desideri. La differenza concettuale tra bisogno e desiderio consiste fondamentalmente nel fatto che il primo si basa sulla risposta mentre il desiderio si basa sulla domanda.
La coscienza dell’azione ha generato un cambiamento della ritualità di fruizione dello spazio. Nel modo in cui si passa da una cultura dell’utile e del razionabile a quella del desiderio, ovvero della scelta.
Sempre più il fine del programma _ progetto diviene saper progettare desideri personalizzati nell’ambito di sistemi spaziali; lo spazio diviene maggiormente riconoscibile e identitario quanto più significativa è l’esperienza che esso è in grado di produrre nel cittadino–fruitore.
La transizione da una città vecchia alla città contemporanea e cioè dei nostri giorni, è confusione, trambusto, traccia, potenziale trama letteraria. Ascoltare la città, ascoltare adagio è accordarle fiducia; storia individuale e narrazioni collettive, bisogno di affermare il principio della relazione.
In una serrata dialettica tra scrittura e disegno si compone un articolato piano processuale che nella sua evidenza pone come base conoscitiva la dimensione del progetto_processo. Scrittura che si fa narrazione e disloca il soggetto in un territorio altro dalla determinazione “topografica” del luogo, dove ogni elemento è sia individualità che catalizzatore di altri eventi. E in questa possibilità si colloca il committente che dilatando lo spazio bianco fra le parole innesta il testo, appropriandosene, con i propri desideri. La stesura del progetto è il momento nel quale i desideri diventano figura nella duplice dimensione della presenza e dell’assenza. L’incontro tra il committente e l’architetto avviene all’interno dei concatenamenti di desiderio, definendo attraverso di essi un comune e “trasversale” livello topologico, quello della carta.
Il lemmario cerca di individuare, in una prima approssimazione, i termini di un possibile progetto, o quantomeno il vocabolario comune.
La strategia dell’autocommento che si estende ed arriva a comprendere il commento su testi altrui oltre che sui propri, perché anche i testi altrui sono filtrati attraverso la soggettività di chi li cita e li interpreta, e la categoria generale dell’intertestualità vengono a comprendere un settore quello dell’ intra-testualità, dove l’autocommento finisce proprio col mettere in luce la provenienza di certe espressioni, e in qualche modo la sorgente, il punto di partenza del passo in questione. A volte si tratta di brani che contengono una citazione esplicita, a volte alla fonte si allude in maniera meno trasparente, altre volte ancora lo spunto pare occultato, e il testo attende di essere decifrato dal soggetto e di svelare radici che potrebbero anche non essere presenti alla coscienza esplicita dell’autore, ciò che non le rende meno efficaci a livello subliminale, testualmente meno reali e pertinenti, come in questo nostro testo.
In questo modo si lascia aperta la questione, ovvero si dà a ciascuno la possibilità di costruire il proprio percorso, stravolgendo l’ordine e creando nuove associazioni di significato, si permette a ciascuno di creare una propria lingua, di riconoscere alla fine la propria idea di spazio e luogo.
Vivere in città significa vivere dentro di essa, immergersi come attori nella visionarietà, nelle trasformazioni. Luogo e labirinto, l’urbanità è ancora avventura psichica, possibile cambiamento, senso di possibilità.
Attraversare la città significa attraversare il tempo e con esso misurarsi e sul tempo e la sua gestione si gioca una partita importante tra la città e il suo sistema di relazioni pubbliche.
I confini sempre legati al rapporto tra cultura e natura sono oggi oltrepassati o quantomeno sfumati; ci si riferisce alla relazione tra luce naturale e artificiale che in una città moderna è sempre più il prodotto di un tempo che trama unificazione tra il giorno e la notte. Ma se nel passato l’utilizzo dell’illuminazione significava aumentare la sicurezza nelle strade ed esercitare strategie commerciali, ora il suo uso sta assumendo un crescente e articolato significato simbolico. La città con la luce, adesso, vuole o vorrebbe rappresentarsi come soggetto relazionale. Con la luce, infatti, è possibile, a partire da un’interazione tra architettura e urbanistica, inventare e ricordare racconti e storie della città e, attraverso di esse, offrire all’immaginario collettivo un testo urbano che costruisce un’immagine, un’identità, un’appartenenza. La luce non è solo un prodotto che costruisce cose, ma è anche “processo” che interpreta spazi, introducendosi in quelli liberati tanto dall’immaginazione quanto dalla memoria.
Paesaggio, ecco cosa diventa la città per il flaneur benjaminiano. O più esattamente: la città gli si apre come paesaggio e lo racchiude come stanza.
Le città divengono coacervo di differenze, contraddizioni e conflitti. I nuovi modi di abitare e di interagire con il territorio testimoniano un profondo cambiamento in atto. Si aprono così nuove strade: quelle della sperimentazione di inedite forme di socialità e convivenza; quelle dell’incontro, della contaminazione e dell’ibridazione culturale, ma anche quelle del conflitto.
E’ anche la nostra vita, quella di molti cittadini occidentali: instabile, errante, costantemente soggetta a dinamiche di deterritorializzazione e territorializzazione.
Uno spazio-mondo in rapido movimento e trasmutazione. Muta il rapporto con lo spazio, che finisce col farci vivere in un mondo che è simultaneamente ovunque e in nessun luogo in un andirivieni di orizzonti urbani rizomatici.
Luoghi-intersezione di territori di circolazione prodotti dalla memoria collettiva e dalla pratiche sociali di scambio che non esistono al di fuori della messa in relazione dei soggetti che li abitano, infatti una città che ancor prima di diventare un centro di residenza permanente, comincia ad esistere come luogo di riunione dove gli uomini confluiscono periodicamente: il magnete viene prima dell’involucro.
Esiste un altro importante elemento che esercita un richiamo molto forte all’interno del mito dell’appartenenza territoriale: la ricerca di una identità in un mondo che si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente e irresolubile.
Interdipendenza messa in luce, linguisticamente parlando, dall’invarianza (in latino, ma anche in italiano) della parola ospite nel designare sia chi è ospite, sia chi è ospitato e che trasgredisce una certa cultura localistica per la quale il forestiero (colui che abita la foresta, territorio altro rispetto al villaggio), è un estraneo da cui guardarsi, un nemico, un pericolo. Una cultura che tende a fare dell’abitante una categoria privilegiata, fondata sull’appropriazione e sulla fruizione esclusiva di un territorio. Sovvertire questa visione, egocentrica, possessiva ed escludente significa allora avere la forza di disegnare una diversa etica dell’ospitalità.
Le rappresentazioni cambiano il territorio, spesso più dei processi reali. Il modo di raffigurare uno specifico contesto territoriale, finisce infatti col trasformare lo stesso ambito rappresentativo.
Veicolare certe rappresentazioni territoriali ha il potere di plasmare l’ambiente, lavorando sulle percezioni collettive, esplicitando immaginari che hanno forza di radicarsi. Gli uomini non hanno mai abitato il mondo ma sempre e solo la descrizione che di volta in volta, la religione, la filosofia, la scienza, hanno dato del mondo. La rappresentazione si configura dunque come principio di realtà, come possibilità di costruire mondi e di istituire ambienti che diventano poi il teatro per le azioni di donne e uomini.
Etimologicamente il termine rappresentare deriverebbe dal latino re-praesentare cioè rendere presente ciò che è assente. Secondo questa definizione, rappresentare diverrebbe la possibilità di presentificare, restituendo attualità e immediatezza ad un qualcosa che al momento non c’è. E’ una costruzione e come tale prevede un’agente che non è separabile dall’attività stessa. In altri termini la rappresentazione non raffigura solo qualcosa, attraverso un processo sostitutivo di natura più o meno mimetica. Essa ospita nelle pieghe del suo svelarsi il suo artefice in due dimensioni compenetrate: una dimensione transitiva e trasparente ossia il rappresentare qualcosa, una seconda riflessiva e opaca: il presentarsi nell’atto di rappresentare qualcosa.
La mappa non è il territorio, ma solo una rappresentazione dello stesso, un modo di interpretarlo e codificarlo. Mappare una città significa organizzare la propria esperienza spaziale attraverso operazioni fortemente soggettive di rappresentazione selettiva. In questo senso, le mappe non ambiscono al compito mimetico di uniformarsi il più possibile ciò che esiste. Una mappa resta sempre un’interpretazione della realtà, e non può mai essere scambiata, pena l’occultamento delle reali ragioni che sovrastano e producono l’immagine, con la realtà stessa. Nella rappresentazione, tra soggetto e oggetto esiste un rapporto estetico una trasposizione allusiva nel quale lo spazio è il medium relazionale per eccellenza. Lo spazio è relativo perché non può esistere al di fuori delle persone che lo esperiscono e lo interagiscono in termini soggettivi.
Lo spazio nel quale viviamo non può essere inteso come un semplice contenitore geometrico nel quale riporre individui e oggetti. Lo spazio che attraversiamo è uno spazio eterogeneo e striato, intessuto di trame relazionali: trame che delineano la specificità di luoghi non omologabili, all’interno dei quali si addensano socialità in movimento.
La dimensione sociale e relazionale dello spazio non è però da intendersi come antitetica e separata rispetto alla sua dimensione fisica. I due orizzonti non sono in contrapposizione, né si pongono in termini dialettici. Spazio fisico e spazio sociale fanno parte della stessa trama che connette l’uomo al suo ambiente.
Il cityscape maturato attraverso forme e valori materiali spazializzati in assetti architettonici e urbani è sempre più legato ad un progetto di una pluralità di mindscapes che scaturiscono da forme e valori immateriali legate ad interessi, ad eventi, ad invenzione e valorizzazione di risorse in continuo movimento che rendono la città porosa, luogo dove ognuno, possa esperire la propria esperienza urbana conciliando bisogni e desideri.
L’azione di attraversare un luogo, che può essere compiuta come comportamento tipico o occasionale ha caratteristiche capaci di incidere sui meccanismi di comprensione e formazione delle strutture urbane.
Un processo che inneschi altri processi, attraverso una ipotesi di modello fluido che contenga la capacità di dinamiche multiple di evoluzione strutturata, contemporaneamente, su più scale di relazione. L’ipotesi di organizzazione per sistemi relazionali propone il progetto come “ciò che sta tra le cose”.
Ecco così, che si fanno avanti ipotesi di nuove stanzialità, che intreccino valenze comunitarie, ambientali, spaziali così da instaurare un nuovo radicamento della comunità al luogo. Il progetto di architettura può allargare ad un uso partecipato la definizione di progetto urbano che possano portare all’ integrazione tra più punti di vista e rendere fluidi i rapporti tra le polarità. Il territorio non come corredo alla città, ne come opposto e diviso, bensì un tutto articolato e vivo un ecosistema ambientale integrato ad ecosistemi urbani. Conoscenza, informazione e formazione si vanno a ibridare nel ludico.
Quindi arricchire le riflessioni sugli spazi aperti, sul disegno del suolo e sulla costruzione degli spazi collettivi come invito a non scindere gli studi e le proposte sullo spazio domestico da quelli sullo spazio collettivo aperto.
Il progetto come sistema aperto. E’ progetto work in progress che incorpora in sé le dinamiche spazio-temporali espresse dal “contesto”; è occasione per tessere nuove relazioni spazio-temporali e di valorizzarne le caratteristiche ambientali sulla base di equilibri provvisori, precari e continuamente dislocati.
Due sono gli atti fondamentali:
1. la interazione multipla di più sistemi sovrapposti ;
2. la percorribilità totale dello spazio.
Ciò vuol dire considerare come la complessità dello spazio e la mutazione nel tempo siano due componenti fondamentali nei fenomeni di trasformazione ecologica del territorio. Alla base di tale concezione sta la relazione fondamentale uomo_società_natura , dalla cui ricorsività deriva la chiave interpretativa delle dinamiche progettuali.
La trasformazione è legata al campo di possibilità interpretative che risulta essere espressione di una sostanziale indeterminatezza, così che il cittadino fruitore possa trovare sempre letture variabili ed attuali. La città si sostanzia così come opera aperta intesa come processo sistemico e stocastico.
Lemmario come progetto micrologico:
Comunità_ rapporto sociale_ desiderio_ scelta_ possibilità_ fiducia_ memoria_ lingua_ tempo_ luce_ sistema relazionale_ paesaggio_ mixità_ incontro_ contaminazione_ ibridazione culturale_ multidimensionalità_ nomadismo_ mutuo apprendimento_ identità_ ospite_ giustapposizione_ sovrapposizioni_ immagine_ rappresentazione_ visione_ mappa_ mindscapes_ cityscape_ porosità_ non finito_ connessione_ sistema aperto_ relazioni immateriali_ sostenibilità_ ambiente_ cultura ecologica_ energia_ circuito attività_ rete
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MICROSCAPE nasce a Lucca nel 2006 da un’idea di Patrizia Pisaniello e Saverio Pisaniello che decidono di convogliare i propri interessi che spaziano dalla ricerca architettonica urbana, alla comunicazione artistica e fotografica, dalla scrittura alla didattica. Patrizia, laureatasi con lode nel 2004, vince nel 2005 l’International Best Diploma Projects Show Competition, si forma presso Massimiliano Fuksas Architetto, svolge attività professionale occupandosi di progettazione architettonica alle diverse scalarità, si occupa inoltre di fotografia e arti visuali. Saverio, laureatosi con lode nel 2003 con A. Natalini e F. Rella, dottore di ricerca nel 2009, affianca all’attività professionale l’attività didattica presso la Facoltà di Architettura dell’Università degli studi di Firenze e al Politecnico di Milano; con A. Natalini vince il Leone di Pietra alla X Biennale di Architettura di Venezia 2006.
Nel 2009, MICROSCAPE è invitato alla mostra concorso “Segnare/disegnare” dell’Accademia Nazionale di S. Luca, e la Piazza di Povegliano è progetto selezionato alla V edizione del Premio Piccinato.
MICROSCAPE è stato selezionato tra i migliori studi europei under 40 risultando tra i vincitori dell’ “Europe 40 Under 40” del 2010 , ed è stato selezionato ad esporre il proprio lavoro nell’ambito delle manifestazioni del Padiglione Italiano all’Expo di Shanghai 2010.
MICROSCAPE architecture_urban design si occupa di progettazione architettonica e urban design; la ricerca architettonica e la pratica professionale si sviluppano su molteplici scalarità, nell’indagine delle relazioni tra natura e costruzione nella dimensione in particolare degli spazi collettivi. Interpretando la città come sede di microeventi, lo stesso progetto, volto a svelare le contraddizioni latenti interstiziali di un pensiero, può essere concepito come arte micrologica dove la collettività diviene interprete dello spazio dell’architettura.
Lucca, 8 gennaio 2011