di Gabriella Lo Ricco
Recentemente è apparso su Domusweb un articolo di Franco Raggi dal titolo Radical Visions. Grazie all’ampiezza di sguardo critico che lo caratterizza, e alla profonda conoscenza di quella linea di pensiero cui egli stesso appartiene (come ampiamente dimostrano le sue opere e la sua attività pubblicistica), Raggi individua con chiarezza ed efficacia i caratteri salienti che stanno a fondamento dei progetti degli architetti radicali degli anni sessanta e settanta.
Il suo scritto tuttavia non si limita a spiegare la produzione appartenente a quella stagione architettonica e a collocarla all’interno di una più ampia revisione dei principi del Movimento Moderno: esso è anche volto a evidenziare, per contrapposizione, la mancanza di contenuti che caratterizza l’architettura contemporanea e – in linea con lo slogan dell’odierna rivista «Domus», Per una nuova utopia” – l’attuale mancanza di utopie.
«Rileggere oggi quelle visioni e quei teoremi – scrive infatti Raggi – ci permette di valutare il vuoto e autoreferenziale formalismo tecnologico che l’architettura dello star system ha internazionalmente sviluppato con un’omogeneità pari alla debole significanza. Dall’altra parte, la rivalutazione dell’utopia come mezzo di analisi teorica capace di generare consapevolezze ed energie su piani e contesti più allargati e politicamente pregnanti converge con la considerazione critica di Rem Koolhaas secondo cui l’eccesso di utopia dovrebbe, oggi, preoccuparci meno della sua totale mancanza».
Radical Visions è dunque un intervento volto a mettere in luce la produttività di quei progetti e di quelle “visioni” che, pur agendo su un piano utopico, svolgono un’azione stimolatrice e, per via di contrasto, avanzano un’efficace critica alla contemporaneità. Basti pensare, in quest’ultima prospettiva e soltanto a titolo esemplificativo, al progetto The Berg pubblicato qualche giorno fa su gizmoweb.
Nulla da obiettare in merito alle osservazioni e ai ragionamenti di Raggi, anche se viene da chiedersi quanto per una cultura come quella attuale possa essere utile invocare l’utopia, o se oggi, piuttosto, possa essere più produttivo concentrarsi su una riflessione che permetta di comprendere l’architettura che si produce.
Tali domande sono generate da due riflessioni correlate:
1) Il successo raccolto dalle architetture dello star system si fonda su un sistema (politico, economico, pubblicistico, sociale) molto articolato, ma soprattutto molto flessibile, in grado di utilizzare di volta in volta strumenti diversi: «l’attrezzatura nuova», affermava Guy Debord nei Commentari sulla società dello spettacolo, «diventa ovunque il fine e il motore del sistema; e sarà l’unica a poter modificare in modo considerevole il suo andamento, ogni volta che il suo uso si sarà imposto senza riflessioni».
La mancanza di riflessione: forse, ancor prima che la mancanza di utopia, è proprio questo il punto debole della nostra epoca. Magari partendo da questa semplice constatazione si potrebbe scardinare dall’interno il sistema iniziando, in prima istanza, a non credere a quelle personalità, e quindi alle loro architetture, come entità omogenee. Forse riportando in primo piano il nesso esistente tra i problemi da risolvere, gli strumenti utilizzabili e le forme architettoniche adeguate a esprimerli, saranno proprio le stesse opere architettoniche contemporanee a discernere più chiaramente i momenti di sviluppo da quelli di regresso, gli apporti positivi da quelli negativi.
2) L’attuale carenza di utopia dice qualcosa della nostra epoca: dice che siamo incapaci di dare certezze al domani. Ciò significa perdere fiducia sia nelle potenzialità costruttive del proprio operato che in quello degli altri. Ma ciò non determina un’alienazione dal presente che alimenta quella mancanza di riflessione di cui sopra e insieme la necessità di invocare delle soluzioni che appartengono al passato?
Milano, 31 marzo 2011