di Marco Biraghi
In una misura forse maggiore rispetto a qualsiasi altra branca della cultura italiana, quella architettonica – nel corso degli ultimi anni del XX secolo e dei primi del XXI – ha attinto in maniera instancabile all’opera di Italo Calvino, in modo particolare alle Città invisibili e alle Lezioni americane. E se nel caso del primo la quantità dei rimandi (benché spesso pretestuosi) poteva lasciarsi spiegare sulla base di ragioni meramente “tematiche”, nel caso del secondo presupponeva invece l’esistenza di un “piano analogico” tra letteratura e architettura certo non impossibile o impensabile, e tuttavia ben lungi dall’essere effettivo.
Vero è che i valori per il “prossimo millennio” indicati da Calvino nel 1985 erano più degli obiettivi futuri che non delle mete raggiunte; ma nelle trasparenti pagine scritte in previsione del ciclo di conferenze da tenere alla Harvard University tali obiettivi erano mostrati come già “centrati”, quantomeno attraverso una dovizia di citazioni da autori classici ma anche moderni e (sia pure in misura minore) contemporanei.
Va presa in ogni caso come un’indicazione degna di nota che leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità siano stati più o meno implicitamente assunti come obiettivi condivisibili “per il prossimo millennio” anche dall’architettura contemporanea italiana.
Oggi, a venticinque anni da quelle pagine, quali tra gli obiettivi additati da Calvino possono dirsi ormai conseguiti dall’architettura italiana? Quali sono tuttora attuali? E, ancora di più, quali obiettivi prefiggersi per la seconda decade del terzo millennio?
Incominciamo dalla prima questione. Osservando retrospettivamente la scena architettonica italiana dal 1985 ad oggi, risulta francamente difficile affermare che leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità siano stati i valori-guida a cui i diversi interpreti di questa abbiano cercato di ispirarsi e sulla scorta dei quali le architetture prodotte in tale periodo si siano effettivamente conformate.
Se la leggerezza è quella delle impacciate “nuvole” e “grattanuvole” che, come altrettanti oggetti volanti non identificati, con sempre maggiore frequenza incrociano i cieli offuscati delle nostre città; se la rapidità è quella con cui procedono le molto sbandierate trasformazioni e “riqualificazioni” urbane e le infinite e dispendiosissime opere infrastrutturali; se l’esattezza è quella praticata nei cantieri sempre più poveri sotto un profilo inventivo, e sempre più lontani dalla qualità che aveva reso illustre l’edilizia del nostro Paese negli anni cinquanta e sessanta: se queste sono le “virtù” dell’architettura italiana dell’ultimo quarto di secolo, allora l’architettura italiana dell’ultimo quarto di secolo è complessivamente assai poco virtuosa.
Certo, ci sono sempre le eccezioni: opere leggere, rapide, esatte (ciascuno è invitato a fornire i propri esempi al riguardo). Ma costituiscono appunto eccezioni in un panorama dominato nell’insieme dalle regole opposte.
E in quanto a visibilità e molteplicità? Il bilancio relativo a queste ultime due si può forse considerare sotto certi aspetti meno fallimentare, anche se la visibilità praticata more architectonico negli scorsi decenni in Italia è stata assai più quella a caccia di esposizione mediatica che non quella in grado di «mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini», come scrive Calvino; mentre sul piano della molteplicità la nostra architettura si è dimostrata alquanto limitata, spesso incapace di liberarsi della duplice impasse dell’eccesso di coerenza e dell’eclettismo sfrenato, per riuscire ad approdare a quella positiva poliedricità, o “enciclopedismo” (ovvero visione a tutto tondo, totale), che in termini architettonici potrebbe tradursi in una capacità di essere compiutamente multi-purpose.
Anche qui naturalmente esistono le eccezioni. Ma mai abbastanza “eccezionali” da costituire elementi su cui edificare qualcosa.
Ciò non significa che il quadro dell’architettura italiana degli ultimi venticinque anni sia tutto in negativo: forse soltanto che le chiavi letterarie non aprono correttamente le porte del regno architettonico del nostro Paese. Tentando con chiavi diverse – ad esempio moderazione o modestia, oppure semplicità, o adeguatezza – si potrebbero ottenere risultati migliori.
Con questo si è dato risposta anche alla questione dell’attualità (o inattualità) delle “virtù” calviniane per l’architettura italiana contemporanea. Rimane da chiedersi quali obiettivi siano da mettere in agenda per il prossimo decennio.
Tra quelli citati da Calvino manterrei soltanto la visibilità – e non certamente perché lo reputi il più profondo ed essenziale (così come, per converso, eliminerei gli altri non certo perché non sufficientemente degni, quanto semmai per il motivo opposto). La visibilità (nel senso migliore del termine) mi sembra l’unico valore che si possa cercare di perseguire oggi senza entrare in contraddizione con la realtà. Leggerezza, rapidità, esattezza e molteplicità, al contrario, mi sembrano tutte qualità meravigliose, ma probabilmente non di questo mondo (o almeno, non di quello italiano del secolo ventesimoprimo).
Tra i valori da perseguire per il prossimo futuro porrei invece proprio la realtà: e non perché la realtà-così-come-è sia in quanto tale un valore, ma per la ragione che l’Italia (e l’architettura italiana con essa) ha un bisogno spasmodico di realtà con cui confrontarsi – e al limite da cui prender lezioni, da cui farsi mettere in scacco, almeno fino al momento in cui non riuscirà (se mai ci riuscirà) a piegarla al proprio volere.
Metterei poi l’identità, non come un valore assoluto di cui rivendicare il possesso, bensì come un tema comunque importante con cui fare i conti: se non per capire chi siamo, almeno per capire se ha ancora senso il bisogno di distinguersi, d’identificarsi. L’identità, quindi, come un termine di paragone, come una bussola, anche per dichiararne l’inutilità, o la perdita.
Includerei almeno una tra le “virtù” apparentemente trascurabili citate più sopra (moderazione, modestia, semplicità, adeguatezza), il cui adempimento da un lato rappresenta la continuità con una certa “tradizione”, anche recente, dell’architettura italiana, ma dall’altro può fare pure da argine a ulteriori “motivi” più forti, trascendenti la singolarità della condizione nostrana e radicati invece nel tempo e nella situazione presenti, riportandoli a una più fondata ragione: penso ad esempio alla provvisorietà dell’architettura odierna, al suo frequente vivere entro una temporalità definita, che induce di sovente a soluzioni niente affatto agili ed economiche bensì, tutto al contrario, esageratamente elaborate e dispendiose; o alla sostenibilità, che da previdente principio di risparmio energetico rischia di trasformarsi in una parola d’ordine pericolosamente fine a se stessa, declinata in forme neo- (o post-)tecnologiche.
Da ultimo indicherei l’urbanità come valore memorabile: e non tanto perché la condizione metropolitana sia ormai diventata planetariamente dominante (e tale comunque si confermerà ancora di più nel futuro), quanto perché all’architettura – e a quella italiana in misura anche maggiore di altre – va pressantemente richiesto di sapersi confrontare con una realtà della città che alle nostre latitudini rimane – per quanto innovata o “riqualificata” – sempre e comunque storica.
Da «Costruire in Laterizio», 140, aprile 2011
8 maggio 2011