di Caterina Verardi
A Milano, in piazzetta Reale, è recentemente sorta un’immensa montagna di sale.
La Montagna di sale della Sicilia, che dà vita e allo stesso tempo inghiotte sagome scure di cavalli, rappresenta un’ipnotica danza-lotta che riporta direttamente al ventre del Mediterraneo, il cui fondamento risiede nell’eterno dialogo tra l’identità ctonia delle divinità normanne e l’ancestrale sentire della gran madre meridionale.
Questa misteriosa epifania deve, purtroppo, fare i conti con un allestimento che non solo ha previsto lo spostamento dell’opera dal sagrato del Duomo, a cui era destinata, all’adiacente piazzetta Reale (sostanzialmente per motivi logistici), ma le ha anche destinato la compagnia della scultura di Philip Haas, legata alla compresente mostra dedicata all’Arcimboldo. Inoltre all’interno di Palazzo Reale il percorso espositivo si snoda senza suggestioni dominanti o evidenti intenzioni didascaliche. Nelle stanze del primo piano, eccezionalmente spogliate da ogni sorta di allestimento, le opere di Paladino affiorano da un’atmosfera intrisa di oggettiva trasparenza.
Non si può negare: il dialogo libero che le opere instaurano con l’osservatore è merito dell’eccezionale urgenza espressiva che caratterizza l’arte del maestro beneventano.
L’arte di Paladino nasce sul finire degli anni Settanta, nel momento in cui si comincia a parlare di crisi dell’arte, intesa come crisi della mentalità darwinistica ed evoluzionistica delle avanguardie.
In un’Italia dove dominano la poetica dell’arte concettuale e la prassi dell’arte povera, ci si domanda da un lato se esista ancora la possibilità di un’evoluzione nei linguaggi artistici e dall’altro se si debba dichiarare la morte dell’arte, constatando che tale esperienza non riesce più ad agitare le profondità del reale.
«In un’epoca di dematerializzazione pura e assoluta, in cui l’oggetto d’arte lascia il posto all’astrazione della filosofia e alla tirannia dell’idea, che cancellano ogni presenza della cosa e della materia, per esaltare il non visto e l’immateriale» (Germano Celant) un gruppo di artisti, uniti dall’abbraccio critico di Achille Bonito Oliva, preferì all’energia concettuale il racconto per immagini, esprimendosi attraverso una pittura intrisa di memoria e spiritualità individuali.
Gli esponenti della Transavanguardia (Chia, Clemente, Cucchi, De Maria e Paladino) danno vita a un’arte che ritrova un nuovo ruolo, nel quale la rappresentazione e la narrazione sono i protagonisti di un dialogo che non ci priva mai dello splendore dell’immagine.
Della Transavanguardia Paladino adotta il nomadismo culturale e l’eclettismo stilistico; dopo un percorso, peraltro mai abbandonato, dedicato alla fotografia e al disegno, con una certa leggerezza nel rapporto con gli strumenti legati al linguaggio, l’artista decide di realizzare Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro (1977), con l’intenzione di dichiarare il senso del dipingere.
Segni primitivi e profondi sulle pareti ci accompagnano al cuore di quel ritiro intimo e solitario che unisce il pittore alla tela bianca. E così, come dichiara lo stesso artista: «comprai una tela standard 50×70 cm, tubetti di colori, a olio e mi misi dipingere un quadro con la coscienza e lo scopo preciso di non voler dipingere nulla, se non l’atteggiamento stesso del dipingere».
Quest’opera viene realizzata nella consapevolezza che sarebbe rimasta un unicum, infatti subito dopo iniziò a dipingere le grandi superfici monocrome dalla sensibilità astratta (Silenzioso l’Angelo) 1977; Rosso silenzioso 1978; Acqua di stagno, bosco o giardino 1980; Con due dita 1980) che riaprono il dialogo con l’arte americana: la pop art, le grandi tele di Rauschenberg e l’action painting.
A partire dagli anni Ottanta le pittura di Paladino si popola di arcaiche figure dall’espressione assorta e spaurita, di icone dell’inconscio che guardano la realtà dai notturni confini dell’indagine artistica (Quadro muto pittura bugiarda 1983).
Quest’arte evoca silenziosamente i segreti e le figure depositati sul fondo delle caverne della memoria e della psiche, della civiltà e della storia. Le effigi delle caverne dell’io non sono leggere e logiche ma sono sature di un senso sotterraneo, fatto di sorprese e d’incantesimi.
Le creature, che escono dalle Tane di Napoli (1983), nascono dalla sensibilità figurativa, arcaica e sensuale, di «un artista del sud, l’artista di un meridione velato e misterioso» (Mimmo Paladino).
Il maestro realizza anche opere come Non avrà titolo (1985): grandi composizioni di simboli che ci ricongiungono a un immaginario ancestrale e universale, radicato in un arcaico ellenismo meridionale.
Più recente è l’incantevole installazione Dormienti (2011); dove, cullati dalla composizione eco-acustica di David Monacchi, «Gli uomini accoccolati in posizione fetale rappresentano l’esistenza umana ma anche il suo stato precedente; sono uomini immersi in un sonno ricco di sogni e di profondità dell’inconscio» (Mimmo Paladino).
In quest’opera come in quella Montagna di sale, che è sia incipit sia conclusione della retrospettiva, l’antichità mitica e ancestrale deve essere intesa, non come un modello, bensì come sentimento: una sorta di legame magico nutrito dalle leggende della tradizione popolare e rituale del Sud Italia.
18 maggio 2011