di Marco Biraghi
Il recente dibattito sul progetto di Giancarlo Perotta sull’area ex ENEL, di fronte al Cimitero Monumentale, nell’ambito del Programma integrato di intervento di Porta Volta, ha risvegliato l’attenzione dell’opinione pubblica intorno al tema della bellezza (e della bruttezza) in architettura. Marco Belpoliti ha ricordato, sulla scorta dell’insegnamento degli antichi greci, il valore morale della bellezza, e l’influenza che questa ha sulla corretta formazione della “comunità” della città. Questa argomentazione – pienamente condivisibile e meritevole di “innalzare” il tono dei consueti discorsi sulla e della società italiana contemporanea – ha l’unico difetto di presupporre l’esistenza di una “sensibilità” etica individuale e collettiva che sembra purtroppo oggi ormai tramontata. E in effetti, in chi ricava lauti profitti dalle operazioni immobiliari è difficilmente pensabile il risvegliarsi di un “senso di colpa” per aver trascurato i propri “doveri morali” con il proprio operare, o per aver turbato i sogni dei milanesi. Ma ovviamente rimane tutta la parte migliore (quella ancora sana) della società italana a poter fare tesoro di questa argomentazione.
Nel mio intervento sullo stesso tema ho invece provato a mettere in connessione la questione dell’estetica con quella della “funzionalità”. Si tratta di un’argomentazione insidiosa. L’ho fatto utilizzando le celebri parole di Otto Wagner, allorché afferma che «niente che non sia funzionale potrà mai essere bello». Per Wagner quello tra estetica e funzionalità è un legame necessario, che passa evidentemente per il riconoscimento della piena positività di quest’ultima, al punto da farne l’elemento cardine del Nutzstil (“stile utile”) da lui stesso adottato in opere fondamentali come la Postparkasse di Vienna. Il rovesciamento dell’affermazione wagneriana («niente che sia tanto brutto potrà mai essere funzionale») è evidentemente una forzatura del pensiero wagneriano, di cui mi assumo pienamente la responsabilità. D’altronde, non a caso, Wagner non sostiene – né arriverebbe forse mai a sostenere – che «niente che sia funzionale potrà mai essere brutto».
Tuttavia, tale rovesciamento non è a mio avviso del tutto improprio – e non soltanto “a rigor di logica”. In apparenza, tra la bruttezza e la funzionalità (o la non-funzionalità) non vi è alcun legame. Se intesa in senso ristretto, la funzionalità risulta svincolata dai problemi estetici. E in questo senso infatti, nulla osta a che un edificio esteticamente “sbagliato” possa assolvere egregiamente alle proprie funzioni. Tuttavia, in una società articolata e complessa qual è quella in cui viviamo, anche la funzionalità va intesa in senso articolato e complesso.
In che modo, dunque, la bruttezza può dimostrarsi “non funzionale”? Innanzitutto a livello d’immagine. Un edificio brutto non “serve”, nel senso che non collabora positivamente al “concerto” urbano, e di conseguenza non concorre a incrementare il valore complessivo di un luogo, di una città, di una nazione. E dal livello apparentemente fatuo e gratuito dell'”immagine” a quello tutto imbevuto di profitto dell’economia il passo è breve. Anche se difficilmente dimostrabile da un punto di vista “contabile”, è intuitivamente evidente che un edificio bello “rende” alla lunga di più di un edificio brutto (nella storia dell’architettura, passata e recente, gli esempi si sprecano).
Allo stesso modo, si potrebbe affermare, un edificio brutto non è funzionale perché implica spesso un maggior dispendio di “risorse” (intese in senso allargato), esprimendosi la bruttezza contemporanea preferenzialmente attraverso l’accumulazione di materiali diversi, l’implicazione di una pletora di forme e segni, l’utilizzo di orpelli inutili. L’idea stessa di brutto, nel mondo odierno, più che al deforme o al non canonico, corrisponde frequentemente al non necessario; ed è in questo senso che certa architettura contemporanea riesce a essere brutta. Si tratta in fondo della vecchia ma sempre attuale critica di Adolf Loos all’ornamento: uno spreco di materiale, di denaro, di forza lavoro, di salute, di tempo, che ha ragioni non meno estetiche che etiche ed economiche.
Insomma, la non funzionalità della bruttezza in architettura è qualcosa che si disloca su piani diversi, distinti ma fortemente intrecciati tra loro; qualcosa in merito alla quale – come tutto ciò che è relativo e soggettivo, come lo sono i giudizi estetici – è difficile compiere generalizzazioni, ma di cui nonostante tutto è forse indispensabile ritornare a parlare. Così come è indispensabile ritornare a parlare dell’estetica – bella o brutta che sia – nell’architettura e nella città, sfuggendo alle “teorie generali”, alle “definizioni onnicomprensive”, bensì fornendo esempi specifici, il più possibile circostanziati: essendo quella estetica una componente in esse niente affatto residuale, inutile o astraibile, bensì necessariamente, essenzialmente presente, dalla quale dunque il discorso sull’architettura e sulla città contemporanee non può in alcun modo prescindere.
16 gennaio 2012