di Marco Biraghi
Per chi percorre la tangenziale ovest di Parma non è facile scorgerlo, nascosto com’è dietro le barriere fonoassorbenti. Ma per chi arriva dalla strada Valera, si staglia in mezzo alla campagna come un’apparizione. Non è qualcosa che abbia a che fare con il corretto adempimento delle funzioni, e neppure – a rigore – con la “bellezza”, nel senso assoluto e un po’ idealistico in cui di norma si adopera il termine. Il Tempio della cremazione di Parma (2006-10), di Paolo Zermani, è uno di quei rari edifici capaci di risvegliare un senso di felicità, un’impressione di compimento. Non è evidentemente estraneo al sorgere di queste sensazioni il fatto che si tratti di un luogo che ispira inevitabilmente, in pari tempo, un senso di tristezza. Ma ciò non spiega ancora tutto. C’entrano anche la nettezza, la dura, ma in fondo consolante, necessità che promanano dall’edificio in mattoni della cremazione, racchiuso entro un protettivo recinto, a sua volta di mattoni. C’entrano la sobrietà e la dignità con cui è qui evocato il lutto, di fronte al quale l’architettura – almeno lei -, con i suoi semplici, lineari elementi, non si piega. Se lo spazio, oltre a dare ospitalità alle nostre azioni, significa qualcosa - e in circostanze estreme esso deve significare qualcosa -, in questo caso si fa portatore di un messaggio di misura. Le dritte, “inutili” colonne, nella sala del commiato, sono spettatrici silenziose di un dramma che di fronte a loro ogni volta si consuma: ma senza queste colonne – vi è da credere – chi si raccoglie tra queste quattro mura si sentirebbe un po’ più solo.
Milano, 13 febbraio 2012
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