di Silvia Micheli
Tra le recenti riconversioni di edifici realizzate a Milano si distingue, per la sua desolante banalità, il nuovo Armani Store. La struttura commerciale occupa il palazzo disegnato da Enrico Griffini negli anni Trenta del XX secolo, la cui austera facciata contribuisce alla continuità dell’elegante cortina edilizia di via Manzoni. Senza alcuna attenzione al carattere distributivo dell’edificio preesistente, si è proceduto al suo completo svuotamento e all’allestimento dello scintallante “mondo Armani”, che comprende la boutique multipiano, definita da schermi a cristalli liquidi e lastre di vetro, e l’hotel, risolto in un modaiolo “stile minimalista”. Non sono sfuggite al furor “riduttivo” neppure le facciate dell’edificio, i cui serramenti delle aperture sono stati sostituiti da omogenei vetri specchianti che ne hanno alterato il carattere. Ma è la soluzione della copertura che chiarisce i presupposti progettuali dell’intero intervento. La sommità dell’edificio è stata demolita e sostituita da un “cappello di vetro” di ben due piani in cui sono stati collocati un ristorante e il centro benessere. Il parallelepipedo di vetro compromette le originali proporzioni dell’edificio e la sua povertà linguistica e materica, che allude alla sobrietà dell’Armani style ma che risulta del tutto estranea all’involucro dell’edificio, dissimula il massimo sfruttamento commerciale della volumetria concessa.
Come è possibile che un simile belvedere, collocato in un punto nevralgico del centro storico di Milano, da cui si gode una spettacolare vista sulla città, ospiti una palestra? E soprattutto come è possibile che una simile occasione progettuale abbia generato un tanto mediocre “cappello di vetro”?
Milano, 13 febbraio 2012
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