Sono uno studente al quinto anno di Architettura al Politecnico di Milano (Scuola di Architettura e societá), ho letto il suo scritto Il brutto dell’architettura e volevo sottoporle una mia breve riflessione.
Il tema sono le scuole o, anzi, le genealogie in architettura, prendendo come spunto la questione del brutto in Perotta e andando oltre.
Perotta non è un individuo isolato ma, come lui stesso scrive nel suo sito, si è formato alla scuola di Rogers, De Carli e Albini e, soprattutto, è stato assistente e allievo di Guido Canella. Il Guido Canella delle composizioni volumetriche complesse che facevano un valore della loro imperfezione, della loro bruttezza, appunto. Ma questo suo esprimersi aveva delle ragioni ben piú profonde, etiche ed estetiche. Erano funzionali a delle “invettive civili”, come le definisce Tafuri, e si agganciavano ad una personale interpretazione della “scuola” di Milano (come lui stesso menziona nella sua “lezione”, citando il Muzio della Cá Brüta), influenzata da una certa fascinazione per le architetture del costruttivismo.
Nel passaggio maestro-allievo, tuttavia, mi sembra che questo modo di approcciarsi al progetto e di esprimerlo, formalmente e linguisticamente, venga reiterato dagli allievi-epigoni ma svuotato del proprio contenuto originario.
In altre parole, il contesto storico, sociale e culturale delle “invettive” è cambiato ma l’aggressivitá del modo di esprimersi no.
E, purtroppo, questo “copismo” mi sembra essere un carattere dominante di un certo modo di insegnare architettura. Parlo da profano, in quanto studio ad Architettura e societá, ma mi sembrano chiaramente distinguibili certe genealogie, di linguaggio, all’interno dei professori di Composizione.
Ovviamente sto generalizzando e semplificando, ma i professori che hanno studiato con Grassi fanno (e fanno fare) tutti le pareti di mattoni a Pantone e le finestre nere, quelli di Monestiroli ci mettono sempre la parete in marmo
verde, quelli di Canella fanno i volumi ibridi e i “panettoni”, come li chiama un mio professore, ecc. ecc.
Biondillo si interroga sull’idea di architettura che i docenti del Politecnico passano agli studenti ma, mi chiedo come potrebbe essere diversamente (al di lá della questione Perotta), dal momento che loro stessi sono ingabbiati in
sistemi compositivi ed espressivi, svuotati della loro matrice originaria, che hanno ereditato ed accettato e che continuano a tramandare, in una sorta di “tradidi quod et accepi”. Sicuramente ci saranno delle eccezioni a ció ma, se la situazione é questa, dov’é la ricerca sullo spazio dell’abitare, sull’architettura e sulla cittá? Dove sono gli avanzamenti dopo i “gloriosi” anni passati in cui gli architetti milanesi riempivano le pagine delle riviste
di tutto il mondo?
Sto tornando da un anno di studio in Brasile, all’Universidade de de São Paulo,dove ho convissuto con compagni stranieri di tutti i paesi del mondo. E quando si parlava di architettura e di professori universitari, le confesso, mi
sentivo in vivo imbarazzo. In mezzo a persone che avevano studiato con Christian Kerez a Zurigo, con Vassal a Berlino, con Gonçalo Byrne in Portogallo, con Alberto Kalach in Messico, con Alejandro Aravena in Cile.
Questo non per rivendicare l’esistenza di un nuovo archistar system milanese (che non sarebbe per forza sinonimo di qualitá) ma piuttosto per evidenziare come, in tutto il mondo, esistano degli architetti che hanno saputo mettere a frutto quanto hanno appreso dando un contributo personale alla ricerca architettonica e all’insegnamento. Perché a Milano tanta mediocritá?
di D. D.*
* Per ragioni di opportunità lo studente ci ha chiesto di potersi firmare soltanto con le iniziali. Volentieri abbiamo esaudito la sua richiesta.
5 febbraio 2012