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di Mauro Sullam
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Le ho davanti per cinque giorni su sette, inquadrate dalla finestra dello studio in cui lavoro, sito a sua volta in un edificio costruito dal clan Ligresti una quindicina di anni prima: sono tre torrette per uffici risalenti agli anni Ottanta del secolo scorso, coronate dal famoso piano vuoto, marchio di fabbrica di questo immobiliarista che ha rovinato diverse parti di Milano e, ironia della sorte, porta il nome di Salvatore.
E vuoti non sono solo gli ultimi piani, ma gli edifici interi, visto che nessuno vi lavora più: si potrebbero dire cattedrali nel deserto, se avessero la dignità di cattedrali e se attorno non avessero una città. Sono piuttosto ferite aperte in un’area già martoriata da altri edifici simili, dal traffico delle cinture esterne, dai terreni abbandonati e da altre miserie di questo impasto periferico, che sigilla gli interstizi fra la città consolidata e quel che resta della campagna, verso la quale si sta velocemente espandendo.
La bestialità di questi edifici sta soprattutto in ciò che simboleggiano: l’uso del territorio come mera risorsa affaristica, luogo di transito dei grandi capitali. Queste ingombranti rovine di calcestruzzo e vetro sono il sedimento di un’operazione finanziaria, e qualcosa di simile continua a succedere, giorno per giorno, in una città che non si ribella abbastanza.