Sulla visione contemporanea

di Marco Biraghi

«Non occorreva attendere una cosiddetta civiltà delle immagini per accorgersi del loro tremendo potere», scrive Maria Bettetini in Contro le immagini. Le radici dell’iconoclastia (Laterza 2007). È anzi vero che proprio nella nostra cosiddetta “civiltà delle immagini” queste hanno perso parte del loro potere specifico, per acquisirne in compenso uno ancora maggiore complessivo. Ovvero: all’enorme quantità d’immagini circolanti (una massa continuamente crescente) corrisponde una progressiva diminuzione della memorabilità di ciascuna. Detto in altre parole, la “potenza” delle immagini è divenuta inversamente proporzionale alla loro diffusione. Ma è proprio quest’ultima che conta oggi più di ogni altra cosa.

Il fenomeno è già stato analizzato e reso largamente noto da Walter Benjamin nel suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: «La tecnica di riproduzione, moltiplicando la riproduzione, pone al posto di un evento unico una sua grande quantità». Nell’epoca della riproducibilità, la perdita dell'”aura” dell’immagine (ovvero il suo «hic et hunc», la «sua esistenza irripetibile nel luogo in cui si trova») è controbilanciata dalla sempre maggior circolazione delle immagini nella società di massa. Proprio la massa, per Benjamin, si fa portatrice di una trasformazione profonda del comportamento nei confronti dell’opera d’arte, e delle immagini più in generale: «Le masse sempre più vaste dei partecipanti hanno determinato un modo diverso di partecipazione»: con ciò «la quantità si è ribaltata in qualità».

Oggi, vanificatasi la prospettiva di «politicizzazione dell’arte» preconizzata (e ferventemente attesa) da Benjamin, risulta difficile stabilire in quale misura – e se – le modalità di partecipazione di massa alla fruizione delle immagini continuino a esercitare un influsso positivo su di esse, ovvero riescano a trasformarne la quantità in qualità. Di certo, sono molto cambiate, nell’attuale era informatica, le modalità di fruizione delle immagini. Si pensi ad esempio al modo in cui le percepiamo in una comune ricerca su Google. Qui la riproducibilità delle immagini fa tutt’uno con la loro moltiplicazione: l’immagine cessa cioè di essere “unica” (non solo nel senso della sua originalità e irripetibilità, ma anche in quello della sua singolarità, o isolamento) per presentarsi immancabilmente come una pluralità. Pluralità che si lascia ordinare per serie o per famiglie. Nel primo caso si tratta di immagini identiche, o differenti soltanto per aspetti marginali (inquadratura, angolo di ripresa, tonalità cromatiche); nel secondo di immagini legate tra loro da un vincolo di “parentela” (autore comune, soggetto comune, ecc.).

Nell’epoca della riproducibilità informatica, questa visione molteplice, simultanea, contemporanea, sta diventando il modo consueto di osservare le immagini. Ben presto non avremo occhi che per una pluralità d’immagini alla volta: sia che si tratti di una serie, sia che si tratti di una famiglia. Non potremo probabilmente più fare a meno di questa modalità di visione in cui le immagini si offrono nella loro riproducibilità in atto, e non solo in “potenza”.

Se secondo Benjamin, chi non conosce la fotografia sarà l’analfabeta del futuro, oggi che quel futuro è arrivato, la conoscenza della modalità di visione contemporanea – il sapersi districare all’interno del suo apparente disordine e della sua sovrabbondanza effettiva – diventa forse il discrimine per stabilire la nuova soglia dell’analfabetismo. E forse in un tempo non troppo lontano sarà cosa comune conoscere la pluralità delle immagini al modo in cui, al giorno d’oggi, un poliglotta parla diverse lingue. Ci attende un futuro da iconologi?

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14 febbraio 2012