Intervista di Brunella Angeli
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Il 2011 è stato l’anno del duecentesimo anniversario della fondazione della griglia di Manhattan. É infatti il 1811 quando la Commission Plan for New York traccia, sulla carta prima e sul territorio poi, quella griglia che come afferma Rem Koolhaas in Delirious New York, è il gesto forte di un vomero che solcando il terreno, materializza nel vuoto l’ipotesi di popolazioni e di attività ancora inesistenti, o di edifici fantasma. La griglia ha in effetti dimensioni enormi rispetto alla popolazione di Manhattan, allora di circa 100.000 abitanti: si estende per 12 viali in direzione N-S e 155 vie in direzione E-O (a partire da quella che oggi è Houston Street verso nord), definendo in totale 2.028 “blocchi”.
Per celebrare il 200° anniversario del Commissioners Plan, la Architectural League di New York ha indetto un concorso di idee a inviti chiamando architetti, paesaggisti, e professionisti del design urbano a utilizzare la griglia stradale di Manhattan come un catalizzatore per pensare il futuro di New York; contestualmente il Museo della Città di New York ha allestito The Greatest Grid: The Master Plan of Manhattan, una grande mostra curata da Hilary Ballon che traccia le origini e l’evoluzione della rete vecchia 200 anni. Tra i progettisti che hanno partecipato al concorso di idee c’è Alessandro Orsini, architetto italiano che vive e lavora a New York, fondatore di Archi[te]nsions, uno studio di architettura e disegno urbano che si occupa specificatamente di esplorare le relazioni tra architettura e i cambiamenti sociali della città contemporanea attraverso nuovi modi di integrare ed organizzare idee con il programma funzionale degli edifici nel tessuto urbano.
Lasciamo raccontare ad Alessandro Orsini la sua visione di “rethinking Manhattan”.
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Brunella Angeli (BA): Il genio della griglia risiede nella sua flessibilità: il sistema metropolitano di New York, quello stradale, edilizio, quello delle acque, dell’elettricità, lo stesso Central Park, e ogni intervento di nuova zonizzazione o riqualificazione, sono tutti molteplici livelli di città che sono stati anticipati dalla griglia. Essa è stata in grado di accogliere e sostenere tutte queste diverse esigenze nate in tempi differenti. Per te, questa rete, è stata musa, metafora, o gabbia?
Alessandro Orsini (AO): Sicuramente musa. New York è così nell’immaginario collettivo anche per via della griglia, ma poi mi sono staccato da quest’idea che nel quotidiano mostra tutta la sua debolezza. La griglia fa crescere la città e la sua economia ma non è fatta per le persone. Non tiene conto dello spazio urbano come quinta alla vita di tutti i giorni ma solo come strumento, con il solo scopo di incanalare flussi, macchine, pedoni.
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(BA): Quindi una musa che si trasforma in gabbia?
(AO): Non esattamente perche è vero la musa diventa una gabbia ma molto flessibile perché New York è in continuo cambiamento, il fare e disfare sono una costante di questa città: dove c’è un edificio adesso, domani potrebbe esserci qualcos’altro.
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(BA): Koolhaas in Delirious New York parla, a proposito di New York, di un mondo interamente costruito dall’uomo perciò di pura fantasia: non vi sono slums, alloggi convenzionati, fabbriche, è fatta per i turisti e per i loro desideri. Che problema rappresenta questo oggi in NY? Che tipo di domanda c’è rispetto ad alloggi a basso costo, a edilizia convenzionata? Ha avuto qualche influenza tutto ciò nella definizione del tuo progetto?
(AO): Manhattan è fatta di sogni, il più delle volte impalpabili, ma sono lì nell’aria. Finché non si gira l’angolo e il sogno viene bruscamente interrotto da qualche brutto edificio di qualche developer speculativo, o da qualche housing project ad alta densità, è cosi che chiamiamo l’edilizia convenzionata. È da molto tempo che studio la situazione dell’edilizia a basso costo. Queste enormi fratture sono un grande problema che affligge i cinque quartieri della Grande mela, ed esse devono essere in qualche modo ricucite al resto del tessuto urbano attraverso l’integrazione di funzioni pubbliche, specialmente perché questi grandi edifici si trovano ovunque non solo in periferia.
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(BA): Che ruolo ha l’analisi del contesto nello studio e nella definizione possibile della città e come si è concretizzata in questo progetto specifico?
(AO): Direi fondamentale. Il nostro è un non-progetto, un omaggio alla storia di New York. Ci siamo trovati di fronte a una grande mole di documenti storici e cosi tra uno schizzo e l’altro e la volontà di ridefinire il futuro della città attraverso un megaprogetto si è delineata una linea chiave che è stata quella di una ricerca sfociata in un progetto che è una nuova esperienza cognitiva della città. Quasi una nuova guida turistica.
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(BA): In che senso una nuova guida turistica?
(AO): Beh vorremo che i turisti andassero in giro per New York a scoprire come sarebbe potuta essere la città e non come realmente è. Un po’ come indossare degli occhiali speciali 3D in grado di riprodurre il landscape scomparso.
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(BA):La griglia è stata definita sulla carta, su un piano bidimensionale, non curandosi di rilievi, corsi d’acqua, e natura esistenti sull’isola. Sei intervenuto su questo punto nel tuo progetto, come lo hai trattato, specialmente oggi in cui si parla sempre di più di standard ambientali e di sostenibilità?
(AO): Questo è il punto. Noi ci siamo accorti che la Commissioner Map era stata fatta in 2D senza l’ausilio della terza dimensione. Questo ha portato alla perdita di tutto l’ambiente e il patrimonio naturale che possedeva Manhattan sin dalle mappe inglesi del 1609 in cui era denominata “the island of many hills“: un’isola formata da una moltitudine di lievi altipiani tutti in un rapporto più o meno diretto con il mare, elemento sempre percepibile nella topografia del territorio. Così abbiamo deciso di riempire quel “buco” tra il 1609 e il 1822, e di richiamare quel paesaggio con le sue naturali funzioni.
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(BA):Quali sono i punti chiave del tuo progetto?
(AO): Direi che i punti chiave sono stati l’evoluzione della griglia negli anni che ci ha portato ad aggiungere la terza dimensione e quindi a ridefinire una topologia dell’isola, e conseguentemente una nuova identità. Ci siamo focalizzati sul fruitore dello spazio urbano. Nella nostra visione la manipolazione del contesto urbano e quindi degli oggetti architettonici è influenzata dalle coordinate di spazio-tempo attraverso l’esperienza dell’osservatore che diventa perciò la quinta dimensione di un sistema quadridimensionale all’interno del tessuto della città. Le colline e la nuova topografia costituiscono lo strumento e insieme il collegamento tra forze opposte, natura e artificio, in un tentativo di rigenerare la griglia con un nuovo sistema naturalmente bilanciato e produttivo. È un progetto ipotetico, ma non troppo, e ci sono molti modi per realizzarlo. Noi abbiamo pensato ad una sorta di “do it yourself” o “inflate your own hill“. È un messaggio umanistico e chiaro: occupa la griglia! Falla in un qualche modo tua!
È un progetto che vuole chiedere agli architetti di occuparsi dello spazio urbano in maniera diversa, di trattare gli spazi interstiziali, tra un edificio e l’altro, e anche quello che avviene al di sopra di essi. È un imperativo per ogni architetto quello di portare un po’ di “common ground” per dirla con le parole di Chipperfiled per la prossima Biennale di architettura, in ogni progetto e a tutte le scale.
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(BA): Quali sono le esigenze più pressanti cui la griglia deve rispondere oggi, e che tu hai considerato nel ripensare Manhattan?
(AO): Nel progetto mi sono concentrato sulle trasformazioni climatiche e geografiche. Il comune di New York chiedeva una soluzione per il rapido innalzamento del livello delle acque, e il nostro progetto ha risposto naturalmente a questo problema. Abbiamo pensato a iniziative di auto – design in cui ciascuno è chiamato a riflettere e scegliere il modo con cui potrà migliorare il proprio spazio privato e di conseguenza quello pubblico. Ci sono delle isole gonfiabili che popoleranno Manhattan rispondendo anche all’esigenza di maggiori spazi verdi. Le colline con il tempo diventeranno degli isolotti che galleggiano, trasformando la città in una fitto arcipelago. Ovviamente la risposta infrastrutturale è conseguente. Ci si muoverà con mezzi d’acqua e la metropolitana sarà una sorta di teleferica che collegherà le varie isole.
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(BA): Una rete è fatta di incroci. Hai trattato in maniera particolare queste intersezioni della maglia, magari come eccezioni alla regola?
(AO): Abbiamo aggiunto un layer alla griglia 2D portandola a una dimensione tridimensionale. Abbiamo quindi considerato l’intersezione in 3D e non meramente l’intersezione “cardo – decumano”. Diciamo quindi che la base è sempre la griglia che viene però sublimata con l’aggiunta di un piano diverso, elevato rispetto alla città.
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(BA): La griglia proprio per la sua estrema chiarezza non necessita di una dichiarazione esplicita di una teoria: essa è uno strumento unicamente funzionale alla progettazione. La città perciò è nata senza teoria, senza bisogno di una pianificazione urbana. Manhattan è ancora alla ricerca di una teoria?
(AO): Non credo che Manhattan sia alla ricerca di una teoria, ma secondo me di una pratica della pianificazione che permetta di sorpassare la griglia, per un approccio più umanistico e rivolto agli abitanti. Chi vive qui tutti i giorni sente il bisogno di uno sviluppo dello spazio urbano che possa sostenere la vita dell’individuo non solo lo sviluppo commerciale e del real estate che pure è parte vitale della città. Forse Manhattan sta inseguendo il sogno di una piazza o tante piazzette come luogo di riposo, come quinta urbana. Lo chiamarei “blocco poroso”, permeabile. Cosa succede se uno dei blocchi di Manhattan viene raso al suolo? Si crea uno spazio interstiziale bellissimo tra gli edifici. Una piazza “regolare” con le sue quinte. È uno spazio incredibile.
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(BA): New York è una città dove si percepisce, fisicamente, la dimensione del work-in-progress. È una città che è stata fondata – o rifondata – pensando al proprio futuro, alle proprie possibilità, alla reinvenzione, architettonica e anche personale. Pensi che la griglia, quale strumento “open-ended”, interagisca sui comportamenti dei suoi abitanti e sul modo di vivere la città?
(AO): Il work-in-progress si respira nell’aria ed è una delle cose più elettrizzanti della città. Tutto cambia costantemente. Sì, anche i comportamenti delle persone ne risentono. C’è un forte senso di instabilità. Le persone vengono temporaneamente qui a New York per acquisire un bagaglio professionale o educativo nelle graduate schools, e poi tornano nei loro Paesi di origine. Ci sono pochi che si trasferiscono qui pensando alla città come soluzione definitiva. Credo che questa tendenza stia un po cambiando, e potrebbe essere aiutata da una pianificazione urbana più a misura d’uomo per quanto retorica questa affermazione possa sembrare.
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Milano, 2 aprile 2011
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