Hangar Bicocca, Milano Novembre 2011
«Cosa resta dopo avere esplorato per un decennio gli addensamenti, gli impasti e le costellazioni inedite nelle geografie dei suoni e delle immagini in movimento, o le scie di irradiamento della performatività, inseguendo i precedenti ancestrali di una regione audiovisiva fluttuante ai bordi di sistemi e discipline? Il live media è una forma ibrida mai destinata a stabilizzarsi, evolvendo ed involvendo, espirando ed inspirando. È fragile ma sempre disponibile ad essere interrogata e stressata. Ora restano da verificare le evoluzioni e le reazioni, le rivoluzioni e i ritardi: nelle immagini, nelle materie, nella tecnica, nei formati e negli immaginari degli artisti. Soprattutto sul senso che possono assumere combinati fra loro in una mostra/programma (altro ibrido che si interroga, propone e intrattiene)». (Dall’introduzione al programma Netmage 11)
«Segue: Io seguito, io mi seguo’ segue: registra per la prima volta un sistema di ritorni a Bologna di alcuni tra gli artisti che più stimiamo, con approfondimenti sulle loro opere che schiudano anche ad aspetti personali. Non c’è un particolare interesse per l’autobiografia in sè, ma per l’intreccio tra scelte individuali professionali e umane, tra creazioni e circostanze, tra ruoli e funzioni, tra saperi consolidati e riformulazioni. La stessa cornice del festival sposta le prospettive di incontro con gli artisti. Un giorno in scena, un giorno alla guida di un auto con passeggeri, un giorno tra il personale di sala, per una redistribuzione dei ruoli e dei gradi di relazione tra spettatore e performer». (Dall’introduzione al programma F.I.S.Co. 2011)
Diagonal (D): L’attitudine “trasversale” alle discipline che contraddistingue la tua attività curatoriale in ambito di arti visive e performative sembra spingerti alla costante esplorazione di una “terra di mezzo” espressiva e disciplinare, per sua natura indefinita, incerta e per questo ricolma di possibilità, la cui “topologia” è da te indagata attraverso un’operazione, un tentativo di decifrazione e di scrittura ex-novo delle mutevoli coordinate entro cui si muovono e agiscono figure autoriali irrequiete, spiccatamente predisposte alla formulazione di ipotesi intorno al contingente. Figure e personalità che – come nel caso del festival live media Netmage – stimoli di proposito mediante una vera e propria strategia curatoriale di “sintonizzazione” finalizzata a innescare progetti collaborativi, di interazione, dagli esiti imprevisti. Su queste premesse si sono poggiate negli anni le basi per l’individuazione e il consolidamento di una formula instabile e di una forma di empatia e di fiducia tra le parti, siano esse pubblico specialistico o generalista, addetti ai lavori e soggetti istituzionali. In che modo nella tua ricerca nel campo del live media e delle moving images è possibile individuare una certa linea di attraversamento differentemente strutturata oggi all’interno delle logiche di produzione di cultura contemporanea?
Andrea Lissoni (AL): La formulazione di un’urgenza inter e transdisciplinare ha radici molto profonde. Appare evidente, in special modo per chi ha svolto studi storici e critici in ambito artistico, che le esperienze originate all’inizio degli anni ‘60, sono state riattualizzate in vari modi intorno alla metà degli anni ‘80, per poi deflagrare nel periodo successivo e subire una fortissima accelerazione, catturando sempre più interesse e attenzione di pubblico e istituzioni. Tale attenzione, unitamente all’esigenza di recuperare economie, ha generato negli ultimi tempi forme di serbatoi che funzionano da “serre temporanee” in cui si incrociano i bisogni di formare bambini, proporre uno spettacolo teatrale, organizzare un concerto, dare vita a un workshop di grafica, curare una lecture. Il problema è che, nonostante i risultati siano di elevato valore, troppo spesso tali iniziative prosciugano le risorse creative degli autori divenendo piattaforme esperenziali ed espositive sospese. La domanda dunque oggi è come fare ad ovviare ciò? Non c’è una risposta immediata o una soluzione. Per quanto mi riguarda ciò che mi propongo è innanzitutto continuare ostinatamente a fare ricerca, che non vuol dire scovare e proporre ad ogni costo la novità, ma anzi approfittare proprio di quel pubblico di consumatori avanzati per renderlo il futuro pubblico con cui lavorare; e poi insistere e credere in autori che si segue da tempo e con attenzione, la cui freschezza e curiosità ti consente di spingerli al limite. Il grande rischio della sperimentazione per un curatore – soprattutto quando le condizioni non ti permettono di effettuare ricognizioni esaustive nei luoghi più periferici di produzione – è per l’appunto la sfida produttiva sul piano espressivo. Ne è un esempio l’intervento From here to ear v.15 di Céleste Boursier-Mougenot presso l’Hangar Bicocca di Milano in cui l’autore ha rifiutato la spettacolarizzazione e la dimensione del white cube per lavorare con la specificità del luogo, come per mantenere questa immagine di necessario rapporto col preesistente, senza stravolgerlo o alterarlo, al fine di riflettere e far riflettere attraverso il proprio lavoro su questioni e tematiche specifiche, come “apertura” e “tempo indeterminato dell’opera”, “variazione infinita”, interdisciplinarietà (in quanto opera che toccava suono, arte visiva e rapporto col performativo); rivelando al contempo uno specifico atteggiamento artistico di chi ricerca intersecando discipline ma cercando possibilmente di dialogare col pubblico. Vorrei rimanere ancora un attimo proprio sulla programmazione dell’Hangar Bicocca, spazio ancora percepito dalla città come distante: qui la scelta curatoriale è stata ed è anche quella di provare a costruire delle “camere temporali” – ne è un esempio Terre Vulnerabili. A growing exhibition – ed è evidente che immaginare come dare vita a questa dimensione richieda la massima attenzione e cura delle condizioni per la costruzione di un’esperienza profondamente intensa e affatto statica. Dunque possiamo dire che lavorare su premesse interdisciplinari può innanzitutto voler dire lavorare affiancando aree disciplinari. Quando invece provi a lavorare sul metterle insieme fin dall’inizio del processo creativo, sull’incontro tra più aree e discipline, allora come autore o come produttore, crei le condizioni per la produzione di un’opera transdisciplinare. Quello che accade col pubblico poi è tutto da capire. Difatti, non è detto che un’opera arrivi a un pubblico più eterogeneo e ottenga una maggiore partecipazione, e non è altrettanto detto, come nel caso di Netmage, che un festival nato da premesse interdisciplinari riesca a toccare più pubblici e a farli convergere. In questo momento, dopo giustappunto dieci anni di esperienza con Netmage – International Live Media Festival, e F.I.S.Co – Festival Internazionale sullo Spettacolo Contemporaneo, iniziative che hanno rappresentato e rappresentano tuttora il grande secondo passo dopo l’esperienza del Link – molto più collettiva, legata a quel periodo, e a un bisogno sociale e curatoriale diverso – il tentativo per il prossimo Aprile è di fondere i due festival. Live Arts Week non sarà un festival di danza di ricerca e di performing arts con un apertura sull’arte, e neppure un festival di nuovi media, arte visiva, immagine e suono in movimento con una apertura sulla coreografia; ma un progetto inedito in cui rielaborare la sinergia curatoriale. Sinergia, per inciso, finora attivata tra noi curatori principalmente sulla base di proposte che fossero pertinenti non tanto con la disciplina ma con l’immaginario che quell’edizione del festival intendeva toccare. Vedi la condivisione dei lavori video di Absalon per l’edizione F.I.S.Co 06 Figura N., o di John Baldessari per F.I.S.Co 07 Today is ok, tra gli altri. Altrettanto è stato per il contributo sempre pertinente che Silvia Fanti ha offerto a Netmage intercettando sperimentatori obliqui provenienti dalla danza, espandendo così l’area critica investigata dal festival volta per volta. Netmage del resto ha sempre scommesso sulla modalità curatoriale: è accaduto ad esempio di lasciare aprire la serata a colui che aveva curato l’immagine di quella edizione e che magari era molto giovane e non ancora particolarmente riconosciuto, per poi passare a un importante riferimento per la scena artistica o musicale – vedi ad esempio Luke Fowler per Netmage 11 (con l’intervento The room in collaborazione con Keith Rowe) che, pure avendo tenuto una mostra alla Serpentine Gallery, per chi si occupa di musica (e che magari era più interessato a Keith Rowe) non rappresentava un particolare richiamo. Risulta pertanto appropriato parlare di transdisciplinare nel momento della produzione creativa, ovvero quando fin dall’inizio gli interlocutori, gli autori accettano la possibilità – come vera e propria proposta curatoriale – di integrare nel loro lavoro quello di qualcun altro. Ciò è stato possibile soprattutto sul territorio locale e nazionale. Per cui quando di fronte a un tesoro inestimabile come il lavoro di Home Movies a Bologna ci troviamo nella condizione di capire qual è il modo di porre in visibilità il talento di un autore come quello di Mirco Santi – che sa guardare quei materiali in un modo totalmente inusuale e con grande lungimiranza – con il bisogno di continuare a riguardare quegli archivi, e possibilmente di sostenerli economicamente e politicamente in futuro, costruiamo una forma di “sintonizzazione” (tuning) tra alcune proposte musicali o performative che ci sembra sensato quel progetto (originariamente solo visivo) possa r-accogliere, di cui possa “approfittare” e con cui possa esplodere e strutturarsi, eventualmente diventando anche una produzione informale che attraversi l’Europa come spesso è accaduto. Questi “oggetti” sono le chiavi del discorso, perchè in grado di porre il pubblico di nicchia degli In Zaire di fronte alla meraviglia dei fondi di Home Movies, e che probabilmente in seguito sentirà l’esigenza professionale o anche semplicemente personale di approfondire; oppure di porre la grande nicchia degli studiosi, degli archivisti del cinema perduto, ritrovato o da ricostruire, di fronte a un momento caldo, di rivisitazione linguistica del proprio lavoro. E questo è uno dei casi in cui un progetto nasce connettendo due discipline, per l’appunto interdisciplinare, si produce, si spinge, si incrocia e si innesta riverberando su un pubblico che a quel punto, finalmente, può definirsi transdisciplinare. Dunque il passo che stiamo provando a compiere quest’anno con Live Arts Week è, come di consueto, recuperare innanzitutto quegli elementi di carattere performativo in giro per l’Europa in possesso di tale codice genetico, esattamente come fu possibile con UPIC Diffusion #15, #16, fase avanzata di ricerca offerta dalla collaborazione tra Russell Haswell e Florian Hecker per Netmage 08; oppure con la proposta di danza che parlerà molto evidentemente del campo multivisivo o del suono ma anche perchè si configurerà come avanzamento ulteriore e maggiormente approfondito di riflessione per chi conosce ed esplora la disciplina della danza.
(D): La tua esperienza prevede inoltre una costante attività di insegnamento e tutoraggio, dall’Accademia all’Università, passando recentemente per il Corso Avanzato di Arti Visive presso la Fondazione Ratti, di cui quest’anno sei stato co-curatore. In che modo hai provato a portare l’attenzione su alcuni specifici territori espressivi contribuendo al contempo alla formazione?
(AL): Nel caso del Corso Avanzato di Arti Visive Ratti, forse l’esperienza più recente in questa veste, ritengo che tale dimensione rappresenti il normale sviluppo della pratica e della tradizione di questo lavoro. La svolta nell’organizzazione e nel funzionamento dei festival in cui ho contribuito è stato proprio quello di avere molto vicino e con ruoli diversi, persone che hanno iniziato come studenti oppure che si sono avvicinati per attitudine alle nostre attività e che poi sono cresciuti trasformandosi da consumatori avanzati in autori straordinari. E questo è un processo che ho sempre seguito e che si è ripresentato per l’appunto a Como. Il Corso Aperto della Ratti del 2011 a cui ho preso parte si caratterizzava per una incessante spinta critica e di confronto con gli studenti. Prevedeva tre momenti in cui gli artisti dovevano presentare un aggiornamento del loro lavoro usando lo spazio come proprio studio/atelier. I processi innescati coi partecipanti sono stati molto vicini a quelli di cui parlavo poco prima col pubblico avanzato dei festival. Ma quale è questa logica? Nelle scuole d’arte la chiamano tutorial, e si basa sul fare un esercizio critico spingendo il più possibile le persone laddove evidentemente non hanno ancora pensato di riflettere. Come accaduto con la Fondazione Buziol di Venezia per la produzione di Multinatural (Blackout), parata inaugurale di Arto Lindsay per la 53a Biennale Venezia Arti Visive, realizzata grazie alla straordinaria condivisione di competenze che hanno reso l’iniziativa un processo formativo puro, un grande processo performativo piuttosto che un’opera d’arte. Molti di coloro che hanno preso parte a questo processo li ho ritrovati in altre situazioni proprio in seguito a una maturazione di consapevolezze e di interessi comuni. Oppure, tornando al caso di Netmage, in cui è accaduto che queste figure prendessero parte in prima persona alla programmazione come autori, avendo continuato a “cavalcare” i sistemi intrecciandoli, e in seguito a ciò, siano diventati per un certo verso curatori di area, ricettori esterni che seguono da un’altra prospettiva, da un’altra area geografica il fermento circostante ponendolo all’attenzione del festival. Festival che per l’appunto conoscono già molto bene. Dall’attivazione di questo circuito ne emerge anche un altro risvolto non indifferente che è quello di riuscire così facendo a ovviare alle falle rimaste aperte del lavoro di scouting – oggi sempre più duro e impegnativo – intorno a certe zone di resistenza, indipendenti, a cui la rete ha dato forza.
(D): Per concludere: sei anche autore di “strane mostre impossibili” in campo editoriale come CUJO. Come, quando e cos’è CUJO?
(AL): CUJO è un progetto Edizioni Zero nato dall’interrogativo di Andrea Amichetti su cosa ne sarebbe stato della carta stampata free press e sul suo valore. Questa ossessione si è incontrata con un’ipotesi formulata assieme, ovvero quella di rilanciare questo problema ad artisti visivi dall’immaginario particolarmente complesso chiedendo loro di affrontare la costruzione di una specie di guida a stessi, del proprio mondo; di inventare conseguentemente un sistema di distribuzione di questa strana proposta dalle caratteristiche dell’oggetto dogma (in mille copie, ciascuna customizzata, distribuita a mano, liberamente e così via) e infine di indicare dieci luoghi nel mondo in cui tale oggetto dovesse essere presente. Questa idea ha affascinato tutti ed è partita in forma molto personale, invitando dapprima Nico Vascellari, con cui ho condiviso ben più di un’esperienza professionale e con cui mi confronto di frequente. Mentre la scelta del secondo artista risale ad alcuni anni fa quando decisi di avvicinarmi a un autore che seguivo da molti anni, Apichatpong Weerasethakul, il quale ha capito immediatamente la logica del nostro progetto abbinandolo a Primitive, il campo di ricerca a carattere installativo costruito a tutto tondo per il film che si accingeva a girare. Mentre l’installazione veniva accolta prima presso il FACT di Liverpool e poi dal Musée d’Art Moderne de la ville de Paris/ARC di Parigi, Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives, il film – che dell’installazione si era alimentata – giungeva nel 2010 al Festival di Cannes accompagnato da questo strano librettino che era diventato un po’ come l’incunabolo di tutta l’opera. La fortuna è stata che il film abbia vinto la 63a edizione del festival, rappresentando conseguentemente una ragione in più per l’editore di investire sul terzo numero, la cui scelta è ricaduta su Jimmie Durham che aveva riunito per quattro anni oggetti raccolti da terra o appartenuti a suo padre; conservandoli poi in scatole che spediva dai luoghi dove si trovava in quel momento: Messico, Venezia, Roma e Berlino, tra le altre città. Per CUJO tutti gli oggetti sono stati fotografati, impaginati in piccoli volumi da mille pagine per mille copie, ognuno connesso a un singolo oggetto offerto assieme al volume secondo la volontà dell’artista di condividere questi mille oggetti – apparentemente privi di un senso o di un utilizzo – nell’intento simbolico di tenere magicamente unito il mondo insieme ad altre 999 persone.
Diagonal è una rubrica a cura di Valerio Borgonuovo e Silvia Franceschini
Andrea Lissoni è storico dell’arte e curatore. Ha conseguito un International PhD in Audiovisual Studies (Cinema and Contemporary Art). Si occupa di relazioni fra arte contemporanea, cinema, suono, live. Insegna dal 2001 presso l’Accademia di Brera e dal 2007 presso l’Università Bocconi. È curatore presso Hangar Bicocca, Milano, co-fondatore di XING e dal 2000 al 2011 co-direttore del festival internazionale live media Netmage. È inoltre curatore del magazine CUJO. Dal 2007 al 2010 è stato membro del comitato scientifico della Fondazione Claudio Buziol con cui ha prodotto Multinatural [Blackout], parata inaugurale di Arto Lindsay per la 53a Biennale Venezia Arti Visive. Ha co-curato mostre collettive fra cui Collateral. Quando l’arte incontra il cinema (Hangar Bicocca, Milano e SESC Pompeia, Sao Paulo, 2007), Check-in Architecture (Biennale Architettura di Venezia, 2008), Circular (stadio di San Siro, Milano, 2004) e personali di Jimmie Durham, Andreas Golinski, Moira Ricci, Simone Tosca, Riccardo Benassi e Invernomuto (PAC, Ferrara). Per Bruno Mondadori Editore ha curato volumi di Amos Gitai, Raymond Bellour e Gabriele Basilico. Con J0 di Cameron Jamie (Teatro Dal Verme, Milano, 2009) è iniziata la collaborazione con Hangar Bicocca dove nel 2010 ha presentato END, mostra personale di Carlos Casas, l’installazione e il live di Phill Niblock Movement of People Working, varie selezioni di film e co-curato assieme a Chiara Bertola Terre Vulnerabili. A growing exhibition e nel 2011 From here to Ear v. 15 di Céleste Boursier Mougenot. Sempre del 2011 è la co-curatela di Tudo è, una mostra sulle scene creative ed artistiche in Brasile per Pitti Immagine, Firenze.