Novembre 2013
Intervista a Luca Molinari
Environments and Counter Environments.
1. Mostra come “re-enactement” ma anche Design (Radicale) come strumento di sovversione, scardinamento e contrapposizione all’ordine precostituito: nell’epoca del “capitalismo cognitivo” il ruolo di Marcel Duchamp sembra ancora una volta centrale, tanto di forma quanto di contenuto. Cosa ne pensa?
Questa mostra è stata per noi un vero e proprio laboratorio a cielo aperto di riflessione critica su di un evento considerato iconico e decisivo all’interno del design italiano, così citato da non essere mai completamente studiato soprattutto per la mancanza di vere e proprie ricerche d’archivio. Da parte nostra è stato subito evidente che non avevamo alcuna intenzione di rimettere in scena la mostra del 1972, quanto piuttosto utilizzare i materiali relativi agli environments e ai video prodotti contestualmente come materia viva e parzialmente inedita per riflettere sulle strategie attivate dal quella mostra, sull’emergenza di nuove parole chiave e sulla relazione tra progetto e nuovi media.
Se è vero che da una parte non abbiamo voluto ricostruire la mostra “as it was”, dall’altra per la prima volta dal 1972 tutti i film prodotti sono stati rimessi in scena contemporaneamente generando un effetto espositivo e conoscitivo molto interessante. In un periodo in cui la cultura Radical appariva così centrale e “di moda”, ci siamo voluti concentrare su quello che consideriamo uno degli involontari atti finali di quel fenomeno così significativo e virale.
2. Da testimone indiretto dell’originaria mostra di Emilio Ambasz (a differenza del connazionale Germano Celant che When Attitudes Become Forms di Harald Szeemann invece l’aveva vista per davvero e che l’ha recentemente riproposta presso la Fondazione Prada di Venezia) su quali premesse (storico-critiche-politiche e personali) lei ha fondato Environments and Counter Environments. “Italy: The New Domestic Landscape”?
Il lavoro è stato portato avanti insieme a Mark Wasiuta e a Peter Lang sin dall’inizio e si è focalizzato progressivamente. Il libro e le mostre prodotte da Peter Lang e … sui Superstudio erano stati un importante punto di partenza, a questo è seguita la progressiva riscoperta di tutti i video prodotti per i differenti “environments” che ci ha appassionato sempre di più. La necessità di lavorare sulla relazione tra new media e discorso politico sul design innestato soprattutto da questa mostra è stato uno degli elementi di maggior interesse per noi. Muovendo dai video abbiamo chiaramente allargato la nostra sfera di ricerca al ruolo di Ambasz nella relazione con i progettisti, all’evoluzione dei singoli progetti e sul complesso del prodotto finale. Il nostro lavoro, a differenza del “testimone” diretto Celant che concettualizza in altra sede ricostruendo la mostra originale, è completamente diverso. Non è mai esistito l’interesse a ricostruire filologicamente gli spazi della mostra, quanto indagare le relazioni, le strategie mediatiche e concettuali e i materiali del progetto cercando una rielaborazione storico critica necessaria per una mostra fortemente mitizzata dalla storiografia del design contemporaneo.
3. Italy: The New Domestic Landscape Achievements and Problems of Italian Design è indubbiamente una mostra che ha segnato la storia di questa categoria in architettura, ma non è la sola. Pensa sarebbe possibile tracciare una storia delle mostre di architettura allo stesso modo in cui si sta facendo con l’arte? Ritiene inoltre che tale pratica di re-enactment di mostre passate possa avere una finalità pedagogica?
In questi ultimo decennio si sono moltiplicate le ricerche e gli studi dedicati anche alle mostre di architettura e design, probabilmente in parallelo ai primi corsi strutturati di Curatela, e credo che diventerà inevitabile accogliere a breve pubblicazioni che cerchino narrazioni complessive e critiche sul mondo delle mostre d’architettura. La ricostruzione di mostre passate considerate iconiche mantiene sempre un margine d’ambiguità che va affrontato consapevolmente e criticamente. Che senso avrebbe, ad esempio, ricostruire oggi la Strada Novissima? La ricostruzione della piccola mostra dedicata all’architettura radicale realizzata nel 1966 e poi riprodotta pochi anni fa presso lo Spazio di Corso Como a Milano ebbe un valore puramente legato al Salone del Mobile e al forte ritorno d’interesse e di costume del Radical, senza avere alcun tipo di rielaborazione critica necessaria e utile allo sviluppo degli studi e del dibattito su quella stagione. Dal punto di vista didattico la ricostruzione di alcuni eventi chiave della nostra storia architettonica potrebbe avere un valore qualora gli studenti coinvolti possano da una parte sviluppare un lavoro di riconcettualizzazione significativo e, dall’altra, fare un’esperienza di costruzione fisica del manufatto come se si trattasse di un modello 1:1.
4. Secondo la metodologia analitica e critica di Manfredo Tafuri, l’unica possibilità per l’emergenza di un criticismo accreditato è il “raddoppiamento” o la “riproduzione” dell’oggetto dell’analisi al fine di poter rintracciare il processo creativo che ha dato vita all’opera. Il processo di ricostruzione dell’opera sta, secondo il critico italiano, all’origine dell’atto critico. Adottando tale prassi per la ricostruzione del progetto originale di Italy: The New Domestic Landscape Achievements and Problems of Italian Design, quali sono le sue osservazioni “critiche” rispetto al progetto di Ambasz? C’è qualche specifica riflessione generatasi durante il processo di “re-enactment” della mostra.
Uno degli elementi che maggiormente ci ha colpito riguarda la metodologia di lavoro di Ambasz e la sua chiarezza nell’indirizzare i lavori dei diversi progettisti coinvolti. Ambasz seguì molto da vicino lo sviluppo dei progetti, intervenne con molta decisione nei processi creativi, indirizzò e corresse dimostrando una visione generale molto interessante. Uno degli elementi su cui ci siamo interrogati riguarda le ragioni della scelta dell’Italia come Paese su cui concentrare l’attenzione e appare sempre più chiaro come il curatore vedesse nel nostro Paese l’equilibrio più stimolante sulla scena internazionale tra istanza estetica, discorso politico e capacità produttiva avanzata.
5. Tornando alla mostra del 1972, l’intento (tra gli altri) di Emilio Ambasz pare fosse quello di attirare l’attenzione sulle origini dell’attività intellettuale di fondo dei progettisti italiani e di evidenziare le loro espressioni politiche, esemplificandole come istanze utili per l’elaborazione di un modello teorico di architettura americana. Qual è il significato di questa mostra ora e la sua importanza di rimetterla in scena in questo momento?
E’ chiaro che una delle ragioni principali che portarono Ambasz a scegliere l’Italia sia stata la questione della relazione evidente in una parte della cultura architettonica e del design italiano tra politica e progetto. Non tutti gli autori avevano una pubblica posizione politica se penso soprattutto ai designers tradizionali come Zanuso, Rosselli, Bellini e Colombo, ma in questo caso credo che il curatore del Moma abbia voluto forzare questi autori ad esprimere con maggiore chiarezza la visione sociale del proprio lavoro. Tornare a discutere della relazione tra progetto e pensiero politico attivo credo che oggi sia molto importante, anzi direi necessario dopo decenni di assoluta mancanza di riflessione su questo tema al di là delle abituali prese di posizione di facciata e dell’appartenenza individuale a diverse compagini politiche. Credo che una parte importante della crisi progressiva di ogni forma di pensiero teorico e critico sull’architettura contemporanea sia legato alla scomparsa progressiva di una visione politica dell’architettura e del suo ruolo critico all’interno della società, quindi presentare pubblicamente le ragioni e i risultati della mostra del 1972 è uno dei tanti modi possibili per tornare a discutere pubblicamente di questa prospettiva necessaria.
6. Altro aspetto interessante del progetto di Ambasz è stato il tentativo di esporre le controversie teoriche, ideologiche e progettuali in cui il design italiano versava in quegli anni tanto da enunciare attraverso la mostra più una serie di domande che di risposte. Lei pensa che ci sia riuscito?
Più che la mostra, il catalogo ha avuto la capacità di concentrare le tante, differenti voci del dibattito in corso, tanto che la sua costruzione editoriale meriterebbe un distinto lavoro di analisi critica che, in parte, sarà svolta nel libro a cui stiamo lavorando. Al contrario la mostra aveva soprattutto la capacità di rendere visibile la contrapposizione (fisica e concettuale) tra gli oggetti della produzione per un mercato crescente, e gli environment come luoghi di sperimentazione pura e libera, malgrado poi questi stessi spazi fossero comunque sponsorizzati e pagati dalle stesse aziende italiane coinvolte.
7. Italy: The New Domestic Landscape Achievements and Problems of Italian Design fu inoltre determinante nell’attuare una rivalutazione del concetto di ambiente (“environment”) o per meglio dire di “contro-ambiente” come strategia e termine architettonico in un’epoca di profonde contrapposizioni. Nel 1972 il termine environment circolava in architettura e design per filiazione da diverse discipline, dal movimento del design ambientale con collegamenti alle scienze comportamentali e sociali sino alla biologia, alla cibernetica, all’industria e a un più corrente utilizzo del vocabolo con riferimento alle questioni ecologiche. Come ha visto evolversi e trasformarsi storicamente questo concetto negli anni successivi alla mostra?
Un elemento interessante della mostra è rappresentato dal rafforzamento semantico di questo termine rispetto al mondo del progetto, anche perché messo in relazione all’idea di un “paesaggio domestico” annullando una apparente contrapposizione di scala che era esistita, invece, in molti testi italiani degli anni sessanta. Nelle mostre e negli eventi culturali che seguono, pensando soprattutto alla scena italiana e all’affermazione della Tendenza, questo termine sembra scomparire. Nella Casabella diretta da Mendini il termine sopravvive per la sua capacità di legare mondi e discipline differenti, tra progetto, scienza e arte ambientale.
8. Quale è la sua visione sull’attuale paesaggio domestico italiano? Le sembra ci sia ancora un elaborazione intellettuale fervida su questo argomento?
Da una parte assistiamo a diversi tentativi di storicizzazione e lettura critica della storia recente del design e dei suoi differenti “landscapes”, ma spesso i tentativi appaiono deboli perché scritti dall’interno e dagli stessi protagonisti a cui manca, evidentemente, distanza critica. In Italia probabilmente i lavori di ricerca più seri e problematici appartengono agli studi di Beppe Finessi e di Imma Forino. Se guardiamo invece alla produzione teorica e di ricerca effettiva sui paesaggi domestici credo si sia di fronte a un quadro abbastanza desolante, dove la pressione industriale e di marketing troppe volte prende il sopravvento e con una debolezza effettiva di elaborazione teorica nella maggior parte delle Scuole universitarie. Di fondo manca un pensiero politico e virale nella lettura attuale dei paesaggi domestici, malgrado si sia in una fase storica complessa e socialmente drammatica a cui credo servirebbero, invece, analisi e visioni critiche e innovative.
9. Se la mostra è stata in America generativa di correnti successive, in Italia sembra, nell’aver consacrato al pubblico internazionale il design radicale (counter-design), allo stesso modo averne placato la sua indole avanguardistica, segnandone la successiva crisi, crisi che è stata soprattutto di natura ideologica e culturale. Non è la prima volta che l”instituzionalizzazione” di un movimento porta inevitabilmente al suo esaurimento. Come legge l’impatto istituzionale sulle mostre in questo senso?
La riflessione riguardo la mostra del Moma è giusta, ma dobbiamo tener conto che quella mostra arriva alla fine di un processo storico e creativo di cui, chiaramente, gli attori coinvolti non erano consapevoli. Un altro elemento che sembra archiviare simbolicamente questa fase è rappresentato dalla crisi petrolifera che esploderà nell’anno seguente su scala mondiale.
La fama della maggior parte dei “radicali” italiani era già istituzionalizzata; nelle interviste ai membri di Superstudio e Archizoom si faceva spesso riferimento al fatto che fossero considerati delle vere e proprie celebrità chiamati in università e istituzioni pubbliche per conferenze e workshop. Solo grazie alla loro sovraesposizione possiamo immaginare l’interesse e la chiamata di Ambasz per la mostra del Moma. Ormai da alcuni anni il design italiano e i gruppi Radical avevano acquisito una interessante notorietà che giustifica questo interesse, oltre al fatto che l’Italia rappresentava in quella fase storica uno dei Paesi dal maggiore dinamismo economico, politico e culturale nel mondo occidentale.
10. Sappiamo che sta lavorando al catalogo di Environments and Counter Environments. “Italy: The New Domestic Landscape” e sorge spontaneo ricordare che per molti il catalogo della mostra di Ambasz sia stato più radicale e fondamentale della mostra stessa. Difatti, fu attraverso questo catalogo che la critica dell’architettura moderna è stata riconosciuta in quanto cristallizzata nella critica dell’architettura come ideologia. E ‘stato il primo tentativo in tempo reale a veicolare i pensieri radicali e anarchici specifici di alcuni critici italiani (tra cui Tafuri, Celant, Mendini, Menna) dall’altra parte dell’oceano. Su queste premesse, come si prospetta il progetto del catalogo della sua di mostra?
In quest tre anni di tour della mostra, partita da New York e passata per Basilea, Barcellona e Stoccolma, abbiamo continuato a scavare nei differenti archivi e discusso insieme su come immaginare il libro che avrebbe solo in parte accompagnato la mostra. Ci piace pensare che il libro sia il risultato finale di un processo di riflessione e ricerca e non il catalogo della mostra stessa.
In questa fase stiamo definitivamente consolidando l’indice e la struttura concettuale del libro che si concentrerà principalmente sugli environments e sulla produzione dei media collegati a questi, oltre che alla vicenda ideologica ed economica della mostra stessa, vista da una parte come una elaborazione accurata e consapevole di Ambasz, e, dall’altra, come volontà dell’industria italiana del design di sbarcare nel mercato americano. I materiali d’archivio, i frames dei film, alcune interviste e una testimonianza diretta di Ambasz integreranno i nostri saggi e le diverse schede analitiche.
11. Mi piacerebbe parlare del “programma per gli ambienti”, la cornice della open call per i progettisti under 35 selezionati a partecipare alla sezione degli “environments” della mostra. Delineando due determinate metodologie, in un certo senso, Emilio Ambasz aveva già delimitato le proposte, e programmato il livello delle loro polemiche fin dall’inizio. E’ interessante questo aspetto programmatico della mostra…
Dall’analisi delle corrispondenze e dei materiali d’archivio la costruzione e il perseguimento costante e consapevole del progetto curatoriale di Ambasz è molto evidente, e questo coinvolse chiaramente anche il concorso under 35 vinto dai 9999.
Diagonal è un progetto a cura di Valerio Borgonuovo e Silvia Franceschini per GizmoWeb.
8 dicembre 2013