di Marco Biraghi
È esistita in Italia negli ultimi decenni – e a quanto pare esiste ancora – un’inesorabile separazione, una sconnessione addirittura, tra la carriera dell’architetto praticante e quella dell’accademico impegnato nell’insegnamento della progettazione (o per meglio dire, della composizione) architettonica. Basti pensare al difficile cammino universitario di Ernesto Nathan Rogers, arrivato alla cattedra soltanto in tarda età e – per una perversa ironia della sorte – a pochi anni dall’insorgere della malattia che lo avrebbe portato alla morte.
Osservando l’esito delle abilitazioni nazionali per quel che riguarda il settore della progettazione architettonica non molto sembra essere cambiato. Sia nella prima che nella seconda fascia, al di là di alcune confortanti ma pur sempre sporadiche eccezioni, ciò che emerge è la tendenza a privilegiare l’assegnazione delle abilitazioni a quelle figure di architetti-professori che, prima e più del proprio studio professionale o di quelli altrui, hanno frequentato le aule e gli ambienti universitari. Al contrario, agli architetti-progettisti a pieno titolo, pure impegnati sul fronte dell’insegnamento ma essenzialmente dediti alla professione, l’abilitazione è spesso stata negata. Valga per tutti il caso – sintomatico ma non certo unico – di Maria Alessandra Segantini, autrice insieme a Carlo Cappai di numerosi edifici di notevole rilevanza in Italia e all’estero e chiamata come visiting professor presso alcune prestigiose università straniere; una figura di architetto di cui – per la sua preziosa esperienza – l’università italiana potrebbe e dovrebbe utilmente giovarsi, e da cui invece viene inspiegabilmente esclusa.
Le ragioni di queste “discriminazioni” appaiono sin troppo evidenti: così facendo, da un lato l’università protegge quelli che considera i propri principali “prodotti”, ovvero quegli architetti-professori che sono cresciuti dentro le proprie mura e non hanno altro sbocco di carriera se non, appunto, nell’ambito dell’insegnamento; dall’altro, si difende dall'”invasione” dei “professionisti”, ovvero da coloro la cui formazione e mentalità – dopo il regolamentare periodo di apprendistato universitario – si sono confrontate soprattutto con il mondo “esterno”, vale a dire con la realtà del lavoro; una realtà interessante, pur con tutte le sue contraddizioni.
Ovviamente i risultati dell’abilitazione nazionale si basano sulla valutazione di titoli che per una parte preponderante è costituita da libri o da saggi, o comunque da contributi scritti, e non da progetti, benché anche questi ultimi fossero passibili di valutazione. E certamente, in un ambito concorsuale, risulta più agevole – benché pur sempre aleatorio – il confronto tra contributi “scientifici” piuttosto che quello tra progetti o edifici che presentano una quantità di variabili ancora più alta. Ciò nondimeno, rimane l’impressione che le scelte operate, per quanto non prive di una propria logica (la quale tuttavia potrebbe essere giudicata almeno in una certa misura corporativista), siano il frutto di un’idea di università ormai invecchiata e – forse proprio per questo – alquanto ingessata. La separazione delle carriere in quest’ambito ha già avuto come conseguenza in passato un progressivo scollamento tra l’università e la realtà, proprio in un ambito come quello progettuale nel quale la realtà dovrebbe essere piuttosto l’orizzonte di riferimento privilegiato e costante. Potrà l’università del futuro continuare a rinunciare ad alcuni tra i migliori architetti circolanti in Italia? Potrà continuare a fare a meno della realtà?
7 febbraio 2014