di Florencia Andreola
Her (di Spike Jonze, con Joaquin Phoenix, 2013), con estrema delicatezza, mette in scena brillantemente un tema di grande attualità: attraverso l’osservazione di una relazione amorosa il film cerca di indagare la difficoltà dei rapporti tra le persone, l’alienazione sociale, la solitudine umana. Insieme a ciò, in un futuro non troppo lontano, la tecnologia è immaginata perfettamente integrata nella vita delle persone, e il film prova a ipotizzare un mondo in cui l’evoluzione digitale si è umanizzata, è talmente avanzata da essersi ormai confusa nelle pieghe della normalità della vita.
Il film sostanzialmente propone una “soluzione” a uno dei problemi più diffusi nel mondo occidentale oggi; immagina che, dal momento che i rapporti tra persone sono diventati troppo complessi e faticosi, e il genere umano non ha più la capacità di confrontarsi intimamente con i suoi simili perché la frustrante ricerca di una perfetta aderenza dell’altro da sé non offre risultati soddisfacenti, la solitudine e lo scontento che ciò provoca si potrebbe risolvere attraverso la creazione di rapporti “su misura”: sistemi operativi intelligenti, intuitivi, quasi umani, che si occupano di organizzare la vita delle persone, si relazionano ad esse, li ascoltano e li consigliano, li consolano. E proprio il loro non essere umani li rende molto “migliori” perché estremamente presenti e disponibili, privi di bisogni propri.
Durante lo scorrere del film emerge chiaramente l’assenza quasi totale di interazione tra sconosciuti in questa enorme e affollata Los Angeles, proposta in chiave leggermente futurista. Tutti sono soli e allo stesso tempo tutti parlano, ridono, dotati di un auricolare all’orecchio. La città, a differenza della condizione umana, non è immaginata in versione distopica, anzi, si presenta abitata da poche automobili; la gente si muove in metropolitana e in treno, LA è densa di spazi pubblici pedonali: ci sono tutti i presupposti “urbani” per una vita migliore. Eppure Theodore è solo, come tutti gli altri, reduce dalla dolorosa fine di un rapporto incapace di accettare e affrontare le complicazioni che la realtà ha loro imposto, schiacciato dalla difficoltà di superare il ricordo di una stagione felice della sua vita. Un unico solido rapporto di amicizia alleggerisce, ma solo di poco, la sua condizione.
La relazione amorosa “reale” viene messa in scena in maniera un po’ stereotipata ma efficace: Amy, l’amica di Theodore, è sposata con un uomo che non le offre comprensione, che vuole imporle il suo modo di stare al mondo, e ciò la disillude al punto da portarla a considerare l’innamoramento una “malattia mentale socialmente accettata”; un’unica uscita di Theodore con una sconosciuta racconta della disperazione di una donna sola che “non ha tempo da perdere” in rapporti che non le garantiscano sin dalla prima uscita una continuità; il collega di Theodore, uomo semplice senza particolari pretese, è invece felice nella sua relazione con una giovane donna con la quale apparentemente non ha niente in comune ma con cui riesce ad essere appagato: questa coppia sta lì per offrire una speranza, è la rappresentazione della possibilità ancora viva di immaginare una relazione “normale”.
E poi c’è la storia d’amore tra Theodore e Samantha, il suo sistema operativo. Una storia intensa, dolce, fatta delle normali preoccupazioni e tensioni di una coppia. Rapporto idilliaco per Theodore che esercita un ruolo di guida e gode di attenzioni che una donna “vera” non avrebbe mai potuto offrirgli. Il rapporto entra in crisi quando la differenza delle loro nature si impone irreparabilmente: Samantha evolve a una velocità incontrollabile, e naturalmente le sue capacità le permettono di fare molto di più di quel che fa con Theodore, come ad esempio essere implicata in 641 relazioni sentimentali contemporaneamente.
Sarà durante l’unico colloquio tra Theodore e la ex-moglie che emergerà un nodo determinante del film: l’incapacità da parte di Theodore – come rappresentante di un’umanità più ampia – di accettare le problematiche dei rapporti che si confrontano nella realtà. Non a caso si innamora del suo computer: il loro rapporto si configura scevro da quelle implicazioni e complicazioni che la realtà impone, libero dai problemi che il confronto tra due corpi creerebbe, un rapporto molto simile alle ormai diffuse frequentazioni in chat: relazioni di solo dialogo, che spesso volutamente si limitano ad esso, che cercano di alleviare il senso di solitudine che si impadronisce di noi dietro il monitor del computer.
Spike Jonze non esagera con la fantasia; lo scenario proposto da Her non è lontano e nemmeno particolarmente irreale. Sostanzialmente i problemi messi in scena sono tutti già presenti nella nostra società. È evidente che non abbiamo ancora una soluzione capace di sanare questa sorta di depressione collettiva, e il film infatti ne propone una che si configura come un palliativo, una resa rispetto a una condizione problematica che non siamo capaci di affrontare e di comprendere nella sua natura e nelle sue cause. E per ciò non siamo (ancora) in grado di risolvere.
22 marzo 2014