di Marco Biraghi
Come noto, la Biennale di Architettura di Venezia di quest’anno sarà dedicata – almeno per una sua parte rilevante – agli elementi fondamentali di cui si compongono gli edifici, pressoché in ogni tempo e luogo: pavimenti, pareti, soffitti, tetti, porte, finestre, facciate, balconi, corridoi, camini, servizi, scale, scale mobili, ascensori, rampe…
Si tratta di un argomento primario, basilare per l’architettura, un argomento che, con una facile tautologia, non fatica a lasciarsi definire “elementare”. Ma c’è da credere che, sotto l’intelligente regia di Rem Koolhaas, l’argomento non mancherà di sollevare significative questioni, sovvertendo tra l’altro alcune delle convinzioni più radicate in materia di architettura: prima fra tutte quella relativa alla presunta centralità dello stesso architetto all’interno del processo produttivo degli edifici, dal quale proprio la figura tradizionalmente ritenuta imprescindibile per esso – al punto da averla fatta assurgere nell’ultimo decennio al ruolo di venerabile “archistar” – si rivela in realtà sempre più marginalizzata, se non vi è esclusa addirittura, in quanto sostanzialmente superflua.
Una mostra del genere promette inoltre di oltrepassare l’interesse della consueta “ristretta” cerchia degli addetti ai lavori, per rivolgersi a un pubblico più allargato, magari meno avvezzo alle raffinatezze proferite in puro “architettese” di manifestazioni consimili, ma proprio per questo anche maggiormente sensibilizzabile a qualcosa che abbia a che fare con la realtà, per quanto contraddittoria o discutibile – o ripugnante – possa essere.
Anche per gli architetti, però – e forse soprattutto per loro – una mostra sugli “elementi” si prospetta gravida di rivelazioni importanti: al di là di rari e spesso fittizi “colpi di genio”, di giochi formali o cromatici, l’architettura (la parola è usata qui non come referente generico bensì nella sua accezione ristretta, esclusiva) è costituita innanzitutto di elementi: elementi che, per quanto “fatti” di certe forme, materiali, colori, a volte anche molto elaborati, raffinati, preziosi, sono e rimangono qualcosa di relativamente semplice; qualcosa di assimilabile a “parole”, la cui bontà ed efficacia dipende in buona parte dalla sintassi con cui sono accostate nella “frase” architettonica.
Per questa ragione vale la pena riguardare l’architettura sotto questo punto di vista: riguardare determinati edifici come fossero frasi composte di ben precise parole. Per scoprire, ad esempio, che le stesse parole possono produrre effetti fra di loro molto diversi; o che il medesimo autore può utilizzare, a volte, frasi apparentemente simili, basate sugli stessi accostamenti di parole, con effetti tuttavia niente affatto identici. Un esercizio di comprensione sintattica, dove le “buone regole” della composizione evidentemente contano ma non spiegano tutto.
Non soltanto per ciò, la mostra sugli elementi alla Biennale di Venezia di quest’anno si preannuncia di particolare interesse: dopo tanti anni, come ha dichiarato il suo curatore, una mostra sull’architettura, non sugli architetti.
17 marzo 2014