Testo di Mario Scaglia
Affrontare oggi la questione dello spazio pubblico aperto significa interrogarne criticamente gli archetipi, travalicando le figure e i dispositivi spaziali riconosciuti attraverso i quali tradizionalmente lo spazio collettivo si è manifestato e specificato all’interno del corpo fisico storicamente determinato della città, sotto la forma di strade porticate, piazze, gallerie commerciali, viali e parchi, per estendere la riflessione ed allargare la prospettiva progettuale alle multiple ed eterogenee declinazioni che, nell’attualità, il progetto dello spazio aperto assume per assecondare le diverse forme di aggregazione sociale e i diversi modi di abitare la città.
Va osservato che «la consistenza sociale dei luoghi deputati (alla vita collettiva) si relativizza, si frammenta, si apre al soggettivismo […] perdendo ogni residua connotazione “pubblica” e “collettiva”, vanificata dalla eterogeneità della “folla solitaria”»[1] e che «l’interazione sociale non è più incentrata su luoghi privilegiati, carichi di un significato di ordine sociale, politico, religioso o di scambio, ma sono disseminati in più punti anche non connessi tra loro.
Lo spazio aperto è diventato luogo in cui soggetti diversi esercitano individualmente attività simili: frequentiamo uno spazio aperto nella città contemporanea […] mossi da un intento comune, ma la nostra azione non è mirata e non aspira alla costruzione di regole e ideali collettivi, ma a rispondere a un bisogno assolutamente individuale […][2].
Pertanto ciò che oggi viene indicato e qualificato come spazio pubblico “condiviso” non solo tende a rompere la correlazione fra luogo di massima condensazione dei valori comunitari e luogo della rappresentanza istituzionale, politico-religiosa, di notevole valore simbolico ed estetico, che permane[3] nel suo ruolo di “costante strutturale” al susseguirsi delle trasformazioni dei fenomeni organizzativi della società, delle pratiche sociali d’uso dello spazio e del tempo e dei comportamenti di vita individuali, ma più di tutto ne contraddice “l’attitudine civica”, riconducibile alla “rappresentazione sociale”[4] di ciò che “è in comune” o che “è comune a tutti” nella differenza, ovvero nell’essere spazio intersoggettivo[5], relazionale.
La diffusione insediativa contemporanea, della cosiddetta città dispersa, evidenzia poi il progressivo declino dello spazio pubblico aperto e un evidente mutamento nei rapporti di scala, nell’organizzazione e nel carattere di ciò che è vissuto come spazio condiviso[6]. Lo spazio aperto perde così il suo ruolo connettivo, di intervallo nella concatenazione tra le diverse sequenze spaziali e funzionali del tessuto urbano, «l’esterno, da sempre il luogo del pubblico e dell’identità collettiva, della rappresentazione e della memoria, si annulla, si neutralizza subordinandosi a incerte e mutevoli connotazioni funzionali. Diventa un confine, un distributore, un residuo»[7].
Le forme della spazialità pubblica si presentano sempre più come organismi edilizi introversi, spesso iper-formalizzati, unità pseudo-pubbliche[8] disseminate in modo episodico e discontinuo nel territorio periurbano o in aree periferiche, luoghi atopici chiusi costituiti da enclaves funzionalmente specializzate, legate al consumo di merci e immagini, al divertimento e al tempo libero.
Di fatto questi luoghi evocano l’autonomia della percezione individuale e la soggettività dell’esperienza più che l’espressione dei condizionamenti di un tempo sociale in un luogo comune che implica l’incontro e la mediazione. «L’edificato, il pieno, è ormai incontrollabile, in quanto terreno d’azione di forze politiche, non è così per il vuoto: è questo, forse, l’unico campo rimasto in cui sia ancora possibile qualche certezza»[9].
In questa condizione problematica «la nozione di disegno degli spazi aperti ha guadagnato importanza nella pratica progettuale contemporanea. Nella forma di progetto del suolo, di disegno ed embellissement dello spazio pubblico, di trattamento del verde, di assegnazione di significato al vuoto non edificato tra gli edifici, di definizione dei contenuti, di speciali recinti funzionali dentro la città, lo spazio aperto ha posto questioni in modo nuovo e generale agli stessi metodi e strumenti del progetto di architettura»[10].
È il vuoto che nei meccanismi di formazione e trasformazione dell’organismo urbano è chiamato ad articolare nuove logiche di integrazione tra le parti irrelate del sistema edificato ridefinendo il principio insediativo e riformando il tessuto connettivo sotteso. Il vuoto, o meglio lo spazio positivo negativo[11] può essere allora letto «come promessa, come incontro, come lo spazio del possibile»[12] infatti «[…] il vuoto […] non è una mancanza ma un portare allo scoperto»[13], «[…] non aleggia come idea ma come fenomeno della sensibilità, come fatto di esperienza estetica […]»[14].
Se lo spazio pubblico aperto, intercluso nella forma finita del campo urbano, ha fornito nel corso della storia il supporto generativo e ordinativo per la costruzione materiale della sua impalcatura scenica, definendo la trama coordinata delle relazioni intermedie fra le singole parti costruite, oggi si profilano spazi pubblici aperti di diversa natura, che si misurano con la fisionomia del paesaggio e che antepongono alla morfologia e alla condizione insediativa dello spazio urbano la struttura topologica del territorio, «[…] inteso come un insieme di fatti urbani, di elementi costruiti nella città e nel paesaggio, delle evoluzioni»[15].
L’appropriazione fisica, percettiva e figurativa della sua estensione avviene mediante artefatti discreti capaci di orientare lo sguardo segnando nuovi traguardi, stabilire collimazioni visive e connessioni funzionali. Viene assegnato al progetto il compito di risignificare brani del sistema ambientale e costruire una rinnovata immagine di paesaggio[16] nel suo essere unione e sintesi inscindibile di natura (materia) e cultura (memoria).
La strategia di trasformazione va quindi al di là del dato soggettivo, psicologico o artistico, ma coglie la matrice genetica del territorio, lo “spirito oggettivo” dei luoghi esplorati, costruendo spazi per opposizione o dipendenza al sistema contestuale dato. In questo modo lo spazio pubblico conquista l’estensione territoriale codificando inedite intersezioni e inusuali forme di contaminazione, spaziale e temporale, tra habitat urbano e morfologie naturali, a costituire contesti extra moenia liberamente accessibili.
Lo spazio aperto si configura allora come sistema che lega e connette, a varie scale, luoghi caratterizzati da una forte tensione simbolica e figurativa basata sul confronto dialettico tra opere artificiali ed elementi naturali o paesaggistici. «È necessario considerare il carattere eterogeneo della città contemporanea, se vogliamo davvero trasformarla. […] Per descrivere e comprendere tutto ciò dobbiamo forse rinunciare al concetto di città, che trascina con sé troppi pregiudizi e guardare alla realtà con occhi nuovi. Il concetto di paesaggio ci può aiutare in questa direzione»[17].
La città sembra infatti dissolvere i segni della propria coesione con l’ambiente circostante entro l’indeterminatezza di “stati interrotti”, di interfacce e margini instabili.
I presupposti “ecologici” o “ecologisti” dell’abitare contemporaneo danno rilevanza a questi spazi come ambiti di interazione tra individuo e “ambiente naturale”, introducendo dispositivi architettonici in grado di interrogare e interpretare le tracce sedimentate per conferire un rinnovato valore al territorio, nel senso a-venire del suo significato. Gli spazi aperti nel territorio diventano in questo modo i potenziali fulcri di nuovi “rituali sociali”, che stratificano nuove abitualità.
Dopotutto «[…] la centralità di un’area non è più misurata dalle caratteristiche delle funzioni addensate, bensì dalla capacità che essa ha di integrare una pluralità di usi propri di una comunità vasta e in continua trasformazione»[18].
Il paesaggio, espressione dell’interazione fra un determinato gruppo sociale e il proprio ambiente di vita e, in quanto tale, con una dimensione culturale e collettiva da cui non è possibile prescindere, può, a pieno titolo, prendere parte al processo di demarcazionee costruzione di spazi collettivi attraverso quei segni che, per il loro valore simbolico possono essere facilmente presi a riferimento per affermare il senso di identità, individuale e collettiva, e suscitare sentimenti di appartenenza. Nella tensione dialettica tra naturale e artificiale sono celati i nuovi ambiti spaziali collettivi, soglie di transizione, microcosmi ambientali dai caratteri mutevoli, contrassegnati da una temporalità differenziata e con un’elevata flessibilità d’uso che dà risposta agli stili di vita odierni, sempre più “nomadici”.
Tenendo poi presente che i nostri paesaggi di vita quotidiana – soprattutto quelli urbani – non possono più essere l’espressione di una cultura omogenea, si rende necessario individuare nuovi ambiti di relazione attraverso i quali gruppi sociali culturalmente diversi possano affermarsi.I caratteri simbolici del territorio possono diventare spunti interpretativi ed elementi sui quali ancorare la configurazione di un nuova categoria di spazio pubblico, che si emancipa dal’ordine degli assetti convenzionali, dai limiti e dai condizionamenti d’uso delle singole “categorie di spazio” per introdurre una dimensione che si fonda su “categorie di tempo”, creando ordini differenziati e sovrapposti all’interno del medesimo contesto, una sorta di “narrazione in movimento” dello spazio.
Viene ricercata una possibile autonomia dello spazio aperto, dotandolo di una forma propria, che non intrattiene rapporti di dipendenza con la forma strutturata e gerarchizzata dello spazio propriamente urbano, passando così da un’idea di città-territorio ad una di territorio-città. Da un punto di vista concettuale la costruzione di sequenze architettoniche a modulare e misurare lo spazio aperto deve molto alle performances dadaiste e situazioniste ma anche alle operazioni condotte dagli artisti del movimento Land Art che, tracciando segni nel territorio identificano un dominio di realtà, dove si possono sviluppare inedite esperienze e nuovi tempi di vita collettiva.
Il progetto per una passerella pedonale fra la città di Rapperswil-Jona, nel cantone Sankt Gallen e il piccolo centro abitato di Hurden, frazione della municipalità di Freienbach nel cantone Schwyz può essere ricondotto a questo filone di ricerca, che indaga le implicazioni architettoniche connesse alla dimensione pubblica dell’ambiente naturale.
La presenza di un collegamento, oggetto nel tempo di numerosi rifacimenti, viene documentata e fatta risale al XIV secolo quando Herzog Rodolfo IV, duca d’Austria, fece costruire un ponte in legno per consentire l’attraversamento del lago di Zurigo, nel suo tratto più stretto, legando materialmente le due rive opposte.
Il ponte rivestiva infatti un ruolo strategico sia dal punto di vista militare, per il controllo dei territori posseduti, che per lo sviluppo economico dell’area, rendendo più agevole ed efficiente la circolazione delle persone e lo scambio delle merci. La sua costruzione ebbe inoltre una particolare rilevanza per la ritualità religiosa, il ponte infatti costituiva la via preferenziale che consentiva il superamento del lago ai fedeli in pellegrinaggio sulla via del cammino di San Giacomo.
Verso la fine dell’ottocento, il ponte, diventato antiquato rispetto alla nuove esigenze della mobilità, venne demolito e sostituito da una nuova e più funzionale strada-argine carrozzabile, (il cosiddetto Seedamm), posta più a nord rispetto al suo vecchio tracciato e alla quale si aggiunse, poco dopo, una linea ferroviaria.
Nel 2001, sulle tracce ritrovate dell’antico percorso, la passerella è stata ricostruita da Walter Bieler in chiave contemporanea, interpretandola sia come “luogo” dello stare – una stanza aperta nel paesaggio per la sua contemplazione- che come promenade protesa nello spazio, chiamando in causa la processualità del tempo e il cinematismo del movimento.
Un’architettura di relazioni, segno che marca i rapporti con il sito, con il palinsesto urbano e territoriale, e con l’esperienza vissuta da parte dei fruitori: ossia con l’uso. Il progetto, operando una lettura ontologica del luogo (fisico-percettivo) e delle sue condizioni di formazione, ne recupera le memorie, le stratificazioni e i frammenti, disvelando e ripresentificando i principi sottesi e le qualità latenti che nel tempo passato ne hanno conformato e definito il contesto socio-culturale.
Questo segno architettonico quindi assume significato essendo parte di un insieme sistematico di relazioni storicamente riconosciute, evocando l’immagine di un passato potenzialmente ancora disponibile[19], e permettendo di percepire il paesaggio in modo strutturato, dispiegando una costruzione di scenari e visioni che si rifanno alle strategie dello straniamento. Perciò attraverso il progetto, il paesaggio, nel suo permanere e nel suo mutare, viene rivelato sotto una nuova luce e riannodato al sistema degli spazi aperti urbani, ovvero ricompreso in una costruzione di relazioni dialettiche.
[1] S. Crotti, “Interspazi”: dai siti pubblici ai luoghi comuni, in P.Caputo (a cura di), Le architetture dello spazio pubblico. Forme del passato, forme del presente, Electa, Milano, 1997, p.39
[2] R. Bassani (a cura di), Spazio aperto e dinamica urbana, Libreria Clup, Milano, 2006, p.24
[3] «Solo l’esistenza di una sfera pubblica e la susseguente trasformazione del mondo in una comunità di cose che raduna gli uomini e li pone in relazione gli uni con gli altri si fonda interamente sulla permanenza. Se il mondo deve contenere uno spazio pubblico, non può essere costruito per una generazione e pianificato per una sola vita; deve trascendere l’arco della vita degli uomini mortali. Senza questa trascendenza in una potenziale immortalità terrestre, nessuna politica, strettamente parlando, nessun mondo comune e nessuna sfera pubblica, è possibile. […] È ciò che noi abbiamo non solo con quelli che vivono con noi, ma anche con quelli che c’erano prima e con quelli che verranno dopo di noi. Ma tale mondo comune può superare il ciclo delle generazioni solo in quanto appare in pubblico» in H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 2000, pp. 40-41
[4] Con “rappresentazione sociale” Serge Moscovici rielabora ed amplia il concetto di “rappresentazione collettiva” sviluppato da Èmile Durkheim. « Le rappresentazioni sociali sono sistemi cognitivi con una loro logica, un loro proprio linguaggio […] esse non rappresentano semplicemente “opinioni su”, “immagini di”, “atteggiamenti verso”, ma vere e proprie teorie o branche di conoscenza per la scoperta e l’organizzazione della realtà. […] un sistema di valori, nozioni e pratiche aventi due principali funzioni: primo stabilire un ordine che consenta agli individui di orientarsi e padroneggiare il proprio mondo materiale e, secondo, facilitare la comunicazione tra i membri di una comunità, fornendo loro un codice per denominare e classificare i vari aspetti del loro mondo e della loro storia individuale e di gruppo» in M. Bonnes (a cura di), Moscovici. La vita, il percorso intellettuale, i temi, le opere, FrancoAngeli, Milano, 1999, p.18
[5] «Il mondo fenomenologico non è essere puro, ma il senso traspare all’intersezione delle mie esperienze e di quelle altrui, grazie all’innestarsi delle une sulle altre: esso è quindi inseparabile dalla soggettività e dall’intersoggettività, le quali realizzano le loro unità mediante la ripresa delle mie esperienze passate nelle mie esperienze presenti, dell’esperienza altrui nella mia», in M. Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, LibrairieGallimard, Paris 1945; tr. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano 2003p. 29
[6] La crescita costante della forma urbana è stata contrassegnata dal progressivo processo di frammentazione e privatizzazione degli spazi ad uso pubblico e da un elevato livello di segregazione residenziale
[7] S. Cantalini, G. Mondaini, Luoghi comuni, Roma, Meltemi, 2002, p.24
[8] Possono essere chiamati “pseudo-pubblici” quegli spazi privati ma aperti al pubblico con un grado di accessibilità limitato e controllato come shopping mall, parchi a tema, etc.
[9] J. Lucan, Oma. Rem Koolhaas, Architecture 1970-1990, Electa, Milano, 1991, p.114
[10] V. Gregotti, Gli spazi aperti urbani: fenomenologia di un problema progettuale, in Casabella 597-598, 1993, p.2
[11] «”Positive negative space” implies that the background itself is a positive element, of equal importance with all others. The term is somewhat unwieldy, but it is accurate and suggests the historical sense of the developments in this period, since it implies that what was formely regarded as negative noe has a positive, constitutive function» – S. Kern, The Culture of Time and Space, 1880-1918, Harvard University Press, 2003, p.153
[12] I. De Sola Morales, Terrains vagues, in Quaderns 212, 1996
[13] M. Heidegger, L’arte e lo spazio, il Melangolo, Genova, 2000, p.37
[14] G. Pasqualotto, Estetica del vuoto, Marsilio, Venezia, 2007, p.87
[15] A. Rossi, La costruzione del territorio. Uno studio sul Canton Ticino, Clup, Milano, 1985, p.3
[16] «[…] l’uomo e la società si comportano nei confronti del territorio in cui vivono in duplice modo: come attori che trasformano […] l’ambiente di vita, imprimendoviil segno della propria azione, e come spettatori che sanno guardare e capire il senso del loro operare sul territorio» in E.Turri, Il paesaggio come teatro, Venezia, Marsilio,1998, p.13
[17] M. Zardini, Paesaggi Ibridi. Un viaggio nella città contemporanea, Skira, Milano, 1996, p.57
[18] M. Morandi, Fare centro, Meltemi, Roma, 2004, p.121
[19] La Heilig Hüsli, cappella votiva costruita agli inizi del ‘500 e unica struttura rimanente del ponte in legno medievale, viene incorporata nella composizione della nuova passerella pedonale.