Entres catedrales (2000 – 2009)

di Brunella Angeli

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Nello spazio aperto dalla prospettiva aerea dei suoi tralicci bianchi e dei piani sottili – il progetto di Alberto Campo Baeza tra la Vecchia e la Nuova Cattedrale di Cadice – il tempo smette di succedersi, si sovrappone. L’architetto ha mischiato, in una sorta di corto circuito interno di lunga memoria, monumenti antichi e monumenti moderni: una composizione trilitica che rappresenta l’origine di ogni riparo[1], e il bisogno odierno di un rifugio poco animato. Un paesaggio pubblico che porta con sé la sopravvivenza dell’otium, secondo la nozione latina: attività riflessiva parallela e feconda, «supplemento dell’anima»[2], che si riversa e alimenta gli sforzi richiesti dal negotium, quelle forme di vita activa dei Romani che oggi sono il lavoro salariato dell’uomo moderno.

Il progetto nasce per custodire alcuni resti archeologici rinvenuti nell’area e che ci rammentano l’antica storia della città di Cadice fondata dai Fenici nell’XI secolo a.C. come estremo avamposto d’Occidente: un monumento funerario fenicio del VI sec. a. C., un criptoportico di epoca romana del III sec. a. C., diverse cisterne, una fontana ornamentale, un muro del I sec. a. C., un peristilio con pitture murali del periodo repubblicano dell’Impero Romano del I-III sec. d. C., un frammento di muro medioevale. L’idea del progetto si sintetizza in una piattaforma trapezoidale sopraelevata di 2,60 metri sul piano di calpestio, retta da una struttura di travi e pilastri in acciaio trattati con una vernice speciale di colore bianco e disposti secondo una maglia regolare di 3×3 metri.

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Sul lato est della piattaforma e a livello strada vi è l’ingresso al sito archeologico, delimitato da pareti in vetro strutturale che permettono di osservare i reperti anche dall’esterno. Sul lato ovest si trova la rampa che porta al mirador sopraelevato, il livello dove si sostanziano il rigore purissimo e la volontà dell’architetto di utilizzare lo spazio per cambiare la percezione del tempo. Qui sul podio – che nelle architetture di Baeza è spesso la parte pubblica dell’edificio, il luogo dove vivere- si apre un soggiorno stabile e ospitale, altrettanto rassicurante per il passante indaffarato quanto per quello rilassato.

L’edificio è costituito da un padiglione formato da otto pilastri (la stessa carpenteria che da terra sale a creare tre campate alte 4,80 metri con un passo di 6 metri) che da un lato afferma la propria rappresentatività e dall’altro si appoggia sull’orizzonte con la delicatezza di un’architettura temporanea. I due livelli sono uniti da una pavimentazione omogenea, realizzata con piastrelle di marmo bianco Macael. In direzione del mare una porzione della piattaforma lunga quanto il padiglione e larga la metà (18×3 metri), si abbassa di 50 centimetri per consentire ai visitatori di sedersi e contemplare l’oceano più comodamente.

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La «idea construida»[3] supera dunque il principio strettamente estetico in favore di quello sostanziale, poiché essa considera gli elementi essenziali da cui la costruzione trae fondamento e li rielabora affinché essi siano compresi da tutti. Qui ognuno è protagonista e sovrano del proprio tempo, al riparo dal sole o dal vento dell’oceano. In questo progetto Baeza rappresenta un grado elementare ma plenario del tempo libero, ciò che corrisponde almeno in parte all’idea più duratura di spazio pubblico. Egli svuota di oggetti architettonici – la piattaforma sopraelevata – , suggerendo al passante uno svuotamento interiore dell’anima e insinuando così un’autentica curiosità a salire per sperimentare quella condizione e vivere la piazza sopraelevata.

Questo duplice vuoto, oltre ad essere requisito necessario del tempo libero, è la materializzazione di quel sentire comune che caratterizza un ambiente pubblico: un luogo che attende di essere attivato dall’uso che le persone nel tempo vi daranno. Se infatti il piano terra ha un carattere più privato, un giardino chiuso cinto da una delicata scatola di vetro, nel piano superiore egli eleva l’orizzonte all’altezza degli occhi, lo porta lontano, e trasforma il podio in una linea leggerissima che sembra prendere il posto di quel lontano orizzonte.

Controllo estremo della gravità dunque, mediante un numero preciso di elementi dall’aspetto indubitamente architettonico: la maglia strutturale, il bianco invasivo della carpenteria e delle piastrelle di marmo in contrasto con il cromatismo della pietra locale, la luce piena e diffusa che annulla la profondità ma allo stesso tempo cattura e incornicia il progetto, lo oggettivizza portandolo in primo piano. Il lavoro manuale della costruzione, fatto di elementisemplici e facilmente memorabili, si eleva in questo modo dalla sfera del negotium a quella dell’otium contemplativo, dove il tempo concesso allo sguardo e sottratto all’azione è come un modo superiore di rendere servizio alla Città.

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BIBLIOGRAFIA
Seneca, De otio, in Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1994
Mark Twain, Gli innocenti all’estero (1869), Rizzoli, Milano 2001
Antonio Pizza (a cura di), Alberto Campo Baeza – Progetti e Costruzioni, Electa, Milano 2004
Marco Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea 1750-1945, Einaudi, Torino 2008
Davide Turrini, Alberto Campo Baeza: Pietra, Luce, Tempo, Libria, Melfi 2010
Michele Costanzo, Quattro opere di Alberto Campo Baeza, in “Hortus” n. 40, gennaio 2011
Michel de Montaigne, Saggi (1588), Bompiani, 2012
Alberto Campo Baeza, L’idea costruita, Letteraventidue, Siracusa 2012.


[1] Marco Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea 1750-1945, Einaudi, Torino, 2008, pp. 3-6.
[2] Michel de Montaigne, Saggi (1588), Bompiani, 2012, pp. 956-8.
[3] Alberto Campo Baeza, L’idea costruita, Letteraventidue, Siracusa 2012.