di Stefano Passamonti
La declinazione brasiliana del tema Absorbing Modernity 1914-2014, suggerito da Rem Koolhaas per i Padiglioni Nazionali alla 14. Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, è “Modernità come Tradizione”.
La mostra è un excursus cronologico, composto da fotografie di opere costruite, dal quale si evince una forte tendenza all’internazionalismo critico, un approccio specifico nel trattare i problemi urbani e architettonici propri del complesso territorio brasiliano dove formale e informale, complessità topografica e infrastrutture carenti si intrecciano in scenari caleidoscopici.
Il progetto espositivo del padiglione è di André Corrêa do Lago e del suo assistente Rodrigo Ohtake. Lo spazio interno è riconfigurato con una serie di pannelli divisori in maglie reticolari e “cobogó”. Proprio quest’ultimo (una sorta di diaframma per le strutture in elevazione che discende dalla “treliça” introdotta in Brasile dai portoghesi) è un chiaro esempio di rielaborazione critica dei modelli della tradizione coloniale.
Il percorso proposto segue la narrazione dei momenti storici essenziali e dei progetti più rilevanti, suddivisi in quattro macro-sezioni: Architettura tradizionale: indigena, coloniale, vernacolare, eclettica; Primo modernismo brasileiro (1928-1942); Autonomia e modernità: la stagione eroica (riletta attraverso tre pubblicazioni fondamentali: Brazil Builds di Philip L. Goodwin, 1943; il numero dell’agosto 1952 di «L’Architecture d’Aujourd’Hui»; Arquitetura Moderna no Brasil di Henrique Mindlin, 1956); La modernità come tradizione (1956-2014).
I visitatori sono guidati nella comprensione di come il modernismo brasiliano si sia insediato e stabilito creando le proprie solide radici e di come, in meno di venti anni, siano stati realizzati una serie di edifici paradigmatici dal punto di vista costruttivo, spaziale e ideologico: tra di essi, il Ministero dell’educazione e della salute di Costa, Niemeyer, Reidy e Le Corbusier (Rio de Janeiro, 1937), il Museo di Arte Moderna di Affonso Eduardo Reidy (Rio de Janeiro, 1957), il Congresso Nazionale di Oscar Niemeyer (Brasilia, 1959), la Facoltà di Architettura e Urbanistica di Vilanova Artigas (San Paolo, 1969), l’Aterro do Flamengo di Roberto Burle Marx (Rio de Janeiro, 1965), il Museo d’Arte (San Paolo, 1976) e il SESC Pompeia di Lina Bo Bardi (San Paolo, 1977), il Museo Brasiliano di Scultura di Paulo Mendes da Rocha (San Paolo, 1995), la Piazza delle Arti di Brasil Arquitetura (San Paolo, 2006), la Biblioteca Brasiliana di Eduardo de Almeida (San Paolo, 2013).
Il percorso conduce attraverso i momenti cardine di questa epopea, non trascurando di registrare il dibattito innescato dalla critica internazionale sulla rilevanza dell’esperienza brasiliana, con la pubblicazione di Report from Brazil («The Architectural Review», 116, ottobre 1954); il suo ritorno all’attenzione del mondo con l’inaugurazione di Brasilia (1960); l’ostracismo imposto dalla dittatura militare (1964-85), e in ultimo l’abbandono di una visione urbanistica utopica e l’influenza della città irrazionale, ovvero delle favelas.
La bocciatura di Brasilia e l’oscurantismo applicato dalla critica, assieme all’affievolirsi della presenza del Paese nel dibattito internazionale, hanno salvaguardato l’identità delle scuole locali e la neonata architettura nazionale, con un dibattito interno che da Rio de Janeiro si è spostato a San Paolo, epicentro della produzione architettonica e culturale contemporanee brasiliane.
Il Brasile è stato ed è una nazione che, per molteplici ragioni, rappresenta la più grande anomalia per il continente sudamericano, in termini di territorio, storia, economia, lingua, popolazione e tradizione. La “modernità generatrice” è, in questo paese, una questione di estrema attualità, così tanto che pare non sia ancora uscito dal processo di modernizzazione.
L’architettura brasiliana è essenzialmente quella moderna. Altri paesi costruirono, nel tempo, architetture nazionali viste come “tipiche”, con elementi che diventano quasi folcloristici, sotto forma di stili desunti in forma spesso caricaturale da altre culture. Al contrario del Messico o del Perù, il Brasile precolombiano non ha goduto del lascito di un’architettura solida e solenne. Esso ha invece ereditato e rielaborato in maniera affascinata la grammatica tecnica dei nativi, legata a una limpida tettonica (una sorta di prefabbricazione ante litteram fatta di canne, funi e paglia), che ha riportato nella sua tradizione moderna, trasformandola in una nuova cultura costruttiva e non in un mero stile architettonico. Ciò si ritrova, ad esempio, nei casi eclatanti della “Oca” di Niemeyer o della Casa Butantã di Paulo Mendes da Rocha.
Questa fusione di elementi è indissolubilmente legata a un contesto che non è, come in Europa, la monumentalità della storia, bensì quella della natura. È singolare riflettere sul fatto che il Brasile, a differenza di altre nazioni dove il moderno ha assunto una dimensione compiuta, sia stato dapprima un paese in via di sviluppo e sia poi rapidamente passato da una posizione di acquisizione a una di influenza, conquistando il ruolo trainante di laboratorio per la costruzione della città moderna.
Notevoli sono anche i cambiamenti sociali ed economici verificatisi nell’arco di tempo indagato dal padiglione, durante il quale si passa da una popolazione di 20 milioni a una di 200 milioni di persone; da un regime di stampo fascista e populista, ispirato ai principi del corporativismo, a una vera e propria dittatura militare, sino al ritorno di un governo civile nel 1985. Da allora il Brasile ha raggiunto una sostanziale stabilità, pur nel quadro di grandi diversità sociali ed economiche.
L’irruzione del modernismo in Brasile, all’epoca un paese povero e acerbo, non ha nulla a che vedere con la ricostruzione della città consolidata dopo la guerra, né con i principi puristi del razionalismo europeo. Riguarda, piuttosto, l’infrastrutturazione del suo complesso territorio, così come Le Corbusier rivelerà con i suoi progetti per Rio e San Paolo, nel corso del viaggio compiuto nel 1929. I punti essenziali della grammatica lecorbuseriana vengono assimilati dagli architetti dell’epoca – primo fra tutti Niemeyer – che assieme alla prima generazione di architetti carioca – Reidy e Costa – inaugureranno la stagione eroica dell’architettura nazionale.
L’intento del padiglione è quello di esplorare, con un percorso molto didattico ma abbastanza sistematico, come il paese sia passato da un ruolo periferico a uno centrale sul palcoscenico dell’architettura internazionale. Allo stesso tempo, sottolinea timidamente l’urgenza di un’architettura che da manifestazione episodica (sia pur con grande sensibilità per la costruzione dello spazio pubblico) dovrebbe diventare soluzione ai gravi problemi urbani generati dalla concentrazione, dalla convivenza e dall’integrazione di grandi masse di popolazione nelle postmetropoli brasiliane.
Seppur l’allestimento del padiglione non renda giustizia alla qualità raggiunta dal palinsesto delle architetture costruite in questi anni e con un evidente deficit di creatività, si riafferma comunque il ruolo del Brasile quale protagonista indiscusso del dibattito internazionale, tanto per la sua coerenza e adesione alle istanze dell’architettura globalizzata e globalizzante, sia per la rivendicazione della sua diversità e autonomia.
27 giugno 2014