di Riccardo Villa
«Superata una certa massa critica, un edificio diventa un Grande Edificio. Una tale mole non riesce più ad essere controllata da un solo gesto architettonico, e nemmeno da una qualsivoglia combinazione di gesti architettonici.»
La descrizione, riportata nel celebre saggio Bigness ovvero il problema della Grande Dimensione risalente a circa vent’anni fa, sembra oggi ripresentarsi nelle mani di Koolhaas e riadattarsi a quella sovradimensionata fiera quale l’Esposizione Internazionale di Architettura. Quattro interi edifici, trenta padiglioni e diverse migliaia di metri quadri proiettano la Biennale lontano da qualsiasi raffronto con una tradizionale mostra di architettura. Una massa critica che – al pari di quanto accade per l’edificio – sfugge al controllo di un singolo gesto: la vastità degli spazi, il numero dei partecipanti e l’audacia dello statuto rendono l’Esposizione inassoggettabile ad un controllo curatoriale totale.
Probabilmente conscio della consueta schizofrenia della mostra, il curatore di questa edizione ha voluto suggerire un tema con cui ogni nazione si sarebbe dovuta confrontare. Absorbing modernity è un leitmotiv che attraversa e connette lo scisma dei vari padiglioni nazionali. Koolhaas assume invece il controllo di altre due mostre: Monditalia e Elements of Architecture.
La prima in qualche modo ripropone il meccanismo della stessa Biennale, pur ad una scala più piccola – e dunque controllabile: si configura infatti come una “scansione” del territorio italiano, demandata a molteplici gruppi di ricercatori, ognuno proveniente da città e territori diversi. Una sorta di Coney Island, fatta di luci, spettacoli e installazioni accattivanti. Il tema comune – l’Italia – viene qui indagato attraverso uno sguardo caleidoscopico; a connettere fisicamente l’esposizione non rimane che la stampa su tessuto della Tavola Peutingeriana, forse un rimando a quel velo installato da Koolhaas nel medesimo luogo in occasione della primissima Biennale di Architettura, 34 anni prima.
Da allora, come mostra un grafico all’ingresso di Monditalia, il numero di Biennali è cresciuto esponenzialmente: Biennale di Berlino, Biennale di Marrakech, Biennale di Firenze, di Bucarest, di Singapore, Shanghai, Monaco, San Paolo, Biennale Barbara Capocchin, Biennale dell’Iowa, Web Biennale, Biennale di Chicago… Fuck the Biennale!
Quello della Biennale – sembra suggerire il pannello di Monditalia – è ormai diventato un brand. Il fatto che la mostra si riproponga ogni 24 mesi è una caratteristica accomodante (difficile sarebbe realizzare questo tipo di eventi in un lasso di tempo minore) ma forse ormai anche trascurabile. Resta il dubbio sull’opportunità di un evento che nasce non tanto dal fatto che si abbia effettivamente qualcosa da dire, bensì da una ricorrenza istituita ex-ante, che impone di dire qualcosa.
Il rischio è quello dell’afasia – o peggio – dell’assenza di contenuti, del pour parler. Rischio che sembra non toccare però l’edizione di quest’anno. Al dilagare di un discorso sempre più autoriferito dell’architettura, di cui la Biennale – mostra di architettura di architetti per architetti – è un potenziale fautore, Koolhaas oppone i suoi Elements. Nella loro elementare nudità, liberati da ogni interconnessione, da ogni grammatica e linguaggio, essi rivelano un’architettura liberata da se stessa. Alla crescente popolarità dell’architecture without content Koolhaas oppone un content without architecture.
1 luglio 2014