di Marco Biraghi
«Se i concetti non sono giusti le opere non si compiono; se le opere non si compiono arte e morale non prosperano; se morale e arte non prosperano, la giustizia non è precisa; se la giustizia non è precisa, il paese non sa dove poggiare. Perciò non si deve tollerare che le parole non siano in ordine. È questo che importa» (Confucio).
La citazione è riportata nel numero 852-856 della «Fackel», pubblicato nel maggio del 1931. Come tutto ciò che compare nella rivista diretta e curata da Karl Kraus per oltre trent’anni, anche le parole di Confucio rivestono un significato ben preciso e assumono i toni della polemica. Per Kraus il linguaggio è il vero argine della civiltà, il bastione da custodire e difendere a costo della vita, ben più di quanto lo fossero per lui le trincee della prima esecrata guerra mondiale. Non per nulla, la lotta contro l’umiliazione e lo sfregio quotidiani della lingua da parte dei giornali della sua epoca impegnerà Kraus per molta parte della sua esistenza, facendo di lui il nemico giurato delle frasi fatte e delle scivolate stilistiche.
Sono passati diversi decenni dal tempo in cui Kraus combatteva la sua estenuante battaglia. La lingua continua a essere – nonostante tutto – l’argine della civiltà, anche se è un argine ormai in larga parte seppellito, o sommerso. E tuttavia per i pochi che ancora abbiano la sensibilità per vederlo – o quantomeno per avvertirne la presenza – si tratta di un argine sempre più attaccato, vilipeso, mandato in frantumi. Tra le ultime aggressioni che ha dovuto subire, non è chiaro se per mano di sciagurati giornalisti adusi a desumere il proprio vacuo fraseggiare dalla pedestre traduzione di espressioni anglosassoni, o per mano di chissà quali altri stupratori del linguaggio, vi è la dilagante tendenza a usare il verbo “andare” in senso servile, ovvero “fraseologico”, all’interno di perifrasi in cui questo si unisce ad altri verbi all’infinito. Il campionario che ne deriva è vastissimo, e nella lingua parlata contemporanea sembra non conoscere limiti: “andare a vedere”, “andare a determinare”, “andare a creare”, qualche volta addirittura “andare a essere”…
Tutto ciò, nei discorsi degli ignari ma non per questo meno colpevoli portavoce di questa esiziale tendenza, risuona (o potrebbe risuonare) più o meno così: «E ora andiamo a vedere come si va a determinare il progetto che siamo andati a creare». Questo ovviamente nel caso si tratti di – poniamo – studenti laureandi in architettura.
La ragione di simili tour de force fraseologici risulta pateticamente evidente: essa va ricercata – oltreché in un generalizzato imbarbarimento linguistico – nel tentativo di ammantare il vuoto dei propri discorsi con una forma presuntamente “aulica” e “difficile”; dove la “difficoltà” della forma è lo specchio drammatico – non certo la maschera dorata – della povertà dei contenuti.
Per chi ritenga che sia inutile prendersela per cose “di così poca importanza”, vale la pena ricordare – con Karl Kraus – che «la forma è il pensiero». E a chi pensi che l’essere possa impunemente ridursi a un “andare a essere”, lo stesso Kraus non potrebbe che consigliare – spassionatamente, e questa volta correttamente – di andare a farsi f*!#ere.
3 agosto 2014