di Marco Biraghi
«La struttura urbana di Milano dall’inizio del secolo scorso a oggi rivela particolari capacità di adattarsi a quei cambiamenti che di volta in volta diverse condizioni di abitabilità e istanze di innovazione sollecitano». Così si apre il saggio di Giuseppe Marinoni che fa parte del catalogo della mostra Grattanuvole. Un secolo di grattacieli a Milano, promossa dal Politecnico di Milano e dalla Fondazione Riccardo Catella e curata da Alessandra Coppa. Un incipit su cui vale la pena soffermarsi per cercare di comprenderne le implicazioni. Affermando che i “cambiamenti” all’interno del tessuto urbano milanese nel corso degli ultimi cent’anni sono stati “sollecitati” dal mutare delle “condizioni di abitabilità” e da non ben precisate “istanze di innovazione”, esso infatti suggerisce che tali cambiamenti, se non il prodotto diretto, siano quantomeno il riflesso di una richiesta sociale allargata e in qualche modo condivisa. E se ciò può essere vero per alcune tipologie, in particolar modo residenziali, rischia di non esserlo affatto per quanto riguarda i grattacieli.
In questo senso, la celebrazione nella sede della Fondazione Riccardo Catella (dal 6 novembre al 6 dicembre 2014, via G. De Castillia 28) dell’“epopea” dei grattacieli milanesi presenta alcune ambiguità e solleva qualche perplessità. Ciò non riguarda tanto il lavoro svolto dalla curatrice e da chi l’ha coadiuvata, e neppure i contributi dei numerosi collaboratori che hanno preso parte alla ricerca, che compongono un quadro abbastanza vasto e articolato. Semmai, ai responsabili della mostra si potrebbe rimproverare una certa inconsapevolezza nell’avvicinare un tema che è tutt’altro che “innocente”, e che di conseguenza si sarebbe dovuto trattare con maggior circospezione.
Inconsapevolezza che non può essere invece ascritta in alcun modo alla Fondazione Catella, promotrice niente affatto disinteressata della mostra. E sta proprio qui l’ambiguità. Occuparsi di grattacieli oggi, a Milano, significa con sin troppa evidenza celebrare gli ultimi nati in famiglia: la Torre Unicredit di César Pelli, il Palazzo Lombardia di Pei Cobb Freed & Partners, la Torre Isozaki di Araka Isozaki, la Torre Diamante di Kohn Pedersen Fox, le Torri Solaria dello Studio Arquitectonica, e soprattutto il Bosco verticale di Boeri Studio, di cui Manfredi Catella, amministratore delegato di Hines Italia, è il patron. Il resto (dai progetti futuristi per edifici alti di Antonio Sant’Elia all’immaginifico progetto per il Grattacielo SKNE di Piero Portaluppi, ma in fondo anche la Torre Velasca dei BBPR e il Grattacielo Pirelli di Ponti e Nervi, duplice simbolo della Milano del dopoguerra) è soltanto un pretesto, o piuttosto un piacevole detour turistico-culturale con cui intrattenere i visitatori più curiosi; una vetrina entro cui far scintillare alcuni gioielli della corona ambrosiana. Ma la vera preziosità della mostra consiste nel fornire alle più recenti operazioni immobiliari compiute a Milano una patente di rispettabilità, un’auratica legittimazione, una validazione storica, più e prima ancora che progettuale.
Era l’ultima cosa che ancora mancava ai nuovi rampolli del Manhattanismo “alla milanese”: dopo essersi imposti de facto nello skyline della metropoli lombarda, introdursi de jure nel Gotha del suo patrimonio storico e culturale attraverso l’autorevole certificazione di un’istituzione universitaria prestigiosa come il Politecnico. Va ribadito che la responsabilità di questa ambigua operazione non può essere ricondotta a quest’ultimo. Anzi, a chi ha curato la mostra e alle persone coinvolte nel catalogo va riconosciuto il notevole sforzo di approfondimento del tema del grattacielo milanese, con affondi interessanti e originali (valga per tutti quello sulla Torre Galfa di Melchiorre Bega, analizzata sotto diversi punti di vista). Ma rimane ciò nondimeno l’impressione di un uso strumentale della questione del grattacielo da parte di chi ha tutto l’interesse ad affermarne la validità in un luogo come Milano che pure non presenta i problemi di scarsità di spazio, e di costo del suolo, di una città come, ad esempio, Manhattan.
La prospettiva nella quale sono osservati i grattacieli milanesi, forse non a caso, evita di soffermarsi sui loro aspetti economici e punta invece a presentarli come espressione di uno “stile di vita” moderno e affascinante, molto up-to-date. Più che ogni altra cosa, un modo di guardare e di vivere Milano dall’alto, ovvero da un punto di vista che le è storicamente estraneo, e che per questa ragione risulta – o dovrebbe risultare – “simpaticamente” originale. Una riproposizione del grattacielo in chiave ludica, come il prodotto più alto e raffinato di una società appagata di sé, se non addirittura come un grande gioco sociale.
Ed è proprio la chiave del gioco quella scelta per offrire al visitatore un’immaginifica “panoramica” futura sui grattacieli milanesi. Debitamente riforniti di un adeguato numero di mattoncini di Lego®, alcuni studi milanesi (tra loro Guidarini&Salvadeo, Park Associati, Onsitestudio, Studio Italo Rota, OBR, Piuarch) sono stati invitati a costruire il “loro” grattacielo. Un divertissement, con tutta evidenza, dietro il quale si lascia però intravedere una logica, o quantomeno il modo apparentemente leggero e scanzonato con il quale si vuole trasmettere oggi il “messaggio” del grattacielo: qualcosa con cui familiarizzare, a cui fare progressivamente l’abitudine; qualcosa di amichevole e giocoso.
Sono lontani i tempi in cui Manfredo Tafuri poteva scorgere nei progetti di grattacieli presentati dagli architetti europei al concorso per il Chicago Tribune del 1922 i profili di altrettante “montagne incantate”, ovvero di colossi capaci di leggere l’America soltanto come “mito letterario”, e non come “una realtà strutturale”. Oggi, sotto il cielo di Milano, il grattacielo viene fatto apparire al più come un altro mattone nella costruzione di una dilettevole Legoland®.
10 novembre 2014