Testo di Davide Derossi
La città di Torino, come altre città europee di medie dimensioni, è investita da un processo di riassetto complessivo in funzione di una competizione macroregionale, direttamente collegata alla necessità di attrarre risorse produttive, servizi e funzioni amministrative anche a scala europea. Questo fenomeno avviene in un quadro generale di modifica del sistema di produzione della ricchezza: da quello tradizionale di carattere industriale e manifatturiero a quello di servizio legato allo scambio, allo sviluppo turistico, alla formazione universitaria, alla cultura, all’arte.
In questi ultimi 10 anni Torino ha quasi completato il disegno delle cosiddette “spine” previste dal Piano Regolatore del 1995 di Gregotti e Cagnardi, con il conseguente cambio di destinazione d’uso delle aree ferroviarie e industriali liberate. I mastodontici complessi della Materferro, Teksid, Officine Ferroviarie, Grandi Acciaierie, Michelin, Savigliano, Venchi Unica, saranno letteralmente rasi al suolo e sostituiti per lo più con nuovi comparti residenziali.
È in questo periodo che la città comincia ad interrogarsi sulla efficacia della sua rappresentazione esterna, sulla sua capacità di attrarre investimenti, di offrire di sè un’immagine di efficienza, di progresso. L’immagine della città industriale deve, negli intenti dell’amministrazione, cedere il passo al nuovo modello. È in questo momento della trasformazione che anche la città di Torino comincia a interessarsi alle politiche di marketing urbano.
Le Olimpiadi Invernali del 2006 si inseriranno perfettamente in questo processo e rappresenteranno, da un parte, la prima occasione della città di ottenere una visibilità internazionale e, dall’altra, offriranno supporto al riscatto di un capitalismo immobiliare, non solo cittadino, in cerca di una nuova fase di espansione. Le olimpiadi hanno rappresentato per l’amministrazione l’inizio di un necessario ed inarrestabile percorso di cambiamento, da “company town” ad un nuovo ed imprecisato “modello urbano internazionale”. In questo periodo verranno coniati i primi slogan di “promozione urbana” e migliaia di manifesti inneggianti al cambiamento tappezzeranno le strade cittadine (tra tutti basti citare lo slogan più longevo ed azionista: ”Turin always on the move”).
La propaganda del cambiamento accompagnerà tutti questi dieci anni di trasformazione con la finalità esplicita di perseguire un futuro fatto soprattutto di immagine, di alta velocità, di presunto progresso tecnologico. È in questo quadro culturale che le torri immaginate lungo la “spina centrale” dal Piano di Gregotti si alzeranno ben oltre i 100 metri inizialmente previsti, e si sposteranno anche in altre parti delle città. È seguendo questo intendimento che enormi, costosissimi colossi di acciaio e vetro (ma “eco-sostenibili”) dovranno caratterizzare il panorama urbano, allineare la città alle metropoli contemporanee, spingere Torino oltre la scala nazionale.
Saranno questi anche i prodromi di una lettura del tessuto urbano inteso come una enorme risorsa immobiliare, la cui efficacia speculativa dovrà essere garantita da eventi spettacolari, grandi “oggetti” alla moda, pensati con il preciso compito di stupire, creare consenso, spingere la città verso una immagine differente, aggiornata e moderna. Grandi architetture che, intese soprattutto come “oggetti di design”, trovano la loro giustificazione primaria nella produzione di una identità stilistica che è in prima istanza “formale”, richiama un marchio. Il marchio o brand nella concezione della moda è appunto l’evocazione di un nuovo modo di vivere, un nuovo modo di essere che la “nuova architettura” avrà il compito di rappresentare a scala urbana.
Potremmo dire che anche Torino a questo punto vuole le sue archistars. Si tratta di una richiesta specifica avanzata dall’amministrazione, ma anche dagli immobiliaristi, dai costruttori, dai giornali: che timidamente anche a Torino cominciano ad adoperarsi per sostenere le grandi operazioni. L’amministrazione si appresta a realizzare le condizioni perché ciò accada. Le grandi imprese e le grandi engineering locali si attivano per costruire alleanze con “nomi eccellenti”. Alcuni inviti a partecipare verranno suggeriti direttamente dagli amministratori, reduci dai viaggi studio a Bilbao, Berlino, Barcellona, Parigi, Lione… Questa condizione culturale e operativa ha segnato, come altrove, in modo particolare il decennio compreso tra il 2005 ed il 2015.
I due edifici che a Torino sembrano rappresentare meglio di altri l’inizio e lo sviluppo di questa tendenza sono:
– ll nuovo complesso sportivo per lo svolgimento delle competizioni su ghiaccio delle olimpiadi invernali progettato dall’arch. Gae Aulenti e dall’ing. Arnaldo De Bernardi, inaugurato nel 2006
– Il nuovo mercato coperto di Porta Palazzo progettato da Massimiliano Fuksas e inaugurato dopo una serie di traversie e con diversi anni di ritardo nel 2011.
Entrambi i progetti corrispondono perfettamente alla richiesta di un nuovo brand, di una nuova cifra architettonica globale. Questa esigenza viene sostenuta apertamente dall’amministrazione e dai giornali locali anche sul piano nominalistico: verranno utilizzati improbabili nomi come “Palafuksas” o, come per il nuovo palazzo dello sport di Piazza d’armi, “Palaisozaki”, con la finalità esplicita di indicare un valore aggiunto offerto e garantito dalla firma eccellente. Questo intendimento viene perseguito dall’amministrazione senza le competenze utili ad imbastire dei reali concorsi di progettazione. Entrambi i progetti saranno frutto di gare di “offerta servizio per la progettazione e la realizzazione”, tipologia di gara che prevede bandi spesso non sufficientemente approfonditi e giurie non molto qualificate, in quanto composte prevalentemente da amministratori e dirigenti tecnici. La richiesta è pressante, i problemi legati ai costi di realizzazione e gestione sono, per ora, solo sullo sfondo.
Coerentemente alla loro funzione di promozione urbana entrambi gli edifici si confrontano con un contesto storico, paesaggistico e sociale di grande valore e di forte valenza simbolica. Entrambi gli edifici sono collocati in punti strategici di accesso alla città e molto adatti a “mettere in scena” uno spettacolo.
Il palazzo per lo sport su ghiaccio verrà, con una decisione infelice e affrettata dalle procedure Olimpiche, collocato sotto o all’interno della magnifica “vela” progettata dagli strutturisti Franco Levi e Nicolas Esquillan in occasione delle celebrazioni dell’Unità di Italia del 1961, lungo la fascia verde posta a lato del principale ingresso sud della città.
In questo caso si tratta di rinnovare la retorica auto-celebrativa già inaugurata per la manifestazione del ’61. Il nuovo “grande oggetto” dovrà rappresentare la nuova immagine di efficienza e modernità che la città intende produrre. Gae Aulenti dopo alcune indecisioni, motivate dalla difficoltà di perseguire una soluzione che preservasse i caratteri della “vela” e al tempo stesso fosse in grado di offrire quella “autonomia della forma” richiesta per il nuovo palazzetto, decide di disporre il nuovo edificio sotto la vela e non dentro. Il nuovo palazzetto avrà una sua copertura autonoma. Questo risultato è anche garantito dalla decisione di operare in due fasi. In una prima fase verrà restaurata la grande “vela” ed eliminate, con grandi polemiche, le originali pareti vetrate. In una seconda fase verrà realizzato l’edificio, separato dalla grande struttura esistente. Il volume del nuovo palazzetto ha una copertura piana che per adattarsi all’andamento della “vela” è divisa in due parti poste a differenti altezze.
Anche la pianta è letteralmente costretta in una soluzione asimmetrica cui la progettista milanese si adatta malvolentieri. Il grande volume protende debolmente verso l’esterno, cerca un sua visibilità autonoma. Gae Aulenti decide di colorare esternamente la sala di rosso differenziandola dai corpi tecnici delle scale per garantire una maggiore visibilità al volume. Per incrementare questo effetto le scale sono inclinate di 45° rispetto alle pareti principali. L’argomentazione della progettista fa anche appello alla necessità di riprodurre in modo artificioso la variazione delle ombre tramite il colore, lì dove il sole, per via della copertura esistente, non arriva. Il progetto in definitiva si risolve con un contrasto non del tutto controllato fra i due “oggetti” architettonici. La grande volta di Levi risulterà invece molto più spettacolare ed efficace a restauro finito, nel breve tempo che precede la costruzione del nuovo edificio si potrà osservare la straordinaria qualità strutturale e “formale” della vela. Con grande disapprovazione dell’amministrazione, l’edificio della Gae Aulenti non ottiene il favore della critica, non avrà molto spazio sulle riviste di architettura e sarà confinato in fondo a riviste di secondo livello, come un brand di secondo ordine, come un infelice incidente dello “star system”.
Il nuovo mercato coperto di Fuksas, previsto all’interno del programma di recupero urbano”The Gate” rappresenterà per l’amministrazione una seconda chance per il rinnovamento di immagine della città. La nuova struttura dell’architetto romano si confronta con il contesto storico di Porta Palazzo, in Piazza delle Repubblica, sede dell’antica porta di ingresso alla città da Milano, oggi luogo di svolgimento del più grande mercato alimentare d’Europa. Il nuovo edificio in questo caso deve sostituire il mercato coperto dell’abbigliamento costruito nel 1966 per un uso temporaneo e demolito soltanto nel 1998. Fuksas, raccogliendo in modo più efficace la pressante richiesta dell’amministrazione di una “nuova architettura”, opterà per una soluzione più “artistica”, più “gestuale”, più dichiaratamente e liberamente scultorea. L’edificio presenta una copertura scomposta in più piani inclinati con tagli di luce obliqui rispetto alla pianta. Una “lembo” della copertura a sbalzo, ma appoggiato su aste inclinate, segna l’ingresso principale e si confronta provocatoriamente con gli edifici juvarriani posti sull’altro lato della piazza. Un involucro sufficientemente glamour costituito di lamelle di vetro disposte in piano e sovrapposte, e pertanto non trasparente, avvolge l’intero perimetro, con una doppia parete ceca.
L’allusione materica che giustifica l’utilizzo del vetro in forma non trasparente è, secondo Fuksas, offerta dalla antica presenza delle seicentesca ghiacciaia sottostante l’area di progetto. Il riferimento è alle caratteristiche traslucide del ghiaccio. Nessuna argomentazione progettuale fa riferimento alla qualità e proprietà delle relazioni che caratterizzano un contesto mercatale con ritmi fruitivi piuttosto complessi ed articolati, nessun riferimento esplicito al ricco contesto storico e culturale di riferimento. Le argomentazioni riscontrabili sembrano essere prevalentemente legate agli effetti plastici, alla qualità materica del “vestito” esterno, alla qualità “emozionale” del grande vuoto interno.
Il volume del nuovo padiglione si presenta in definitiva come un “oggetto muto” provvisto di un unico ingresso, su una piazza brulicante di persone e cose, lo spazio interno “emozionale” non è percepibile dall’esterno. Durante la progettazione l’architetto di fronte alla richiesta dei commercianti di avere ulteriori aperture e visuali sull’eterno risponde stizzito che la “composizione artistica” non può essere sporcata da richieste contingenti. L’attenzione del progettista è risposta soprattutto nella produzione dell’”aura” dell’oggetto. L’opera verrà completata con molto ritardo e con un incremento notevole dei costi. L’amministrazione a seguito dell’iniziale fermo rifiuto dei commercianti di insediarsi nel nuovo complesso, in virtù delle “caratteristiche architettoniche speciali” della “nuova architettura”, tenta inizialmente di trasformare il padiglione in un luogo per eventi culturali. Infine, dopo un periodo di inattività e intense polemiche, alcuni commercianti accetteranno di insediarsi e il nuovo padiglione accoglierà una “galleria commerciale” tradizionale dedicata all’abbigliamento.
Queste due “distopie” (o utopie mancate, con risultati negativi ed inattesi), frutto di procedure concorsuali di livello qualitativo basso, messe in campo da una amministrazione efficiente ma culturalmente provinciale, sono esemplificative di un processo di cambiamento del ruolo che l’architettura ha avuto nelle politiche di trasformazione urbana in tutto il territorio nazionale. Un ruolo che ha pesantemente condizionato gli esiti di molte trasformazioni, i linguaggi, le retoriche di accompagnamento per un intero decennio. Un ruolo che sembra oggi perdere terreno, non solo per le difficoltà economiche attuali che hanno reso più difficile giustificare gli sprechi e le disfunzioni che spesso accompagnano questo genere di operazioni, ma anche perché non produce più le “emozioni” richieste.
La saturazione di immagini che il consumo compulsivo di nuove forme e rivestimenti trendy comporta, ha reso meno efficaci le “ginnastiche formali” finalizzate alla creazione di eventi spettacolari. Il divario sempre più ampio fra la retorica di cambiamento associata a questo genere di interventi e la reale domanda sociale di modifica delle condizioni dell’abitare urbano è diventato meno sostenibile. Da un parte si cavalca l’epica del cambiamento dall’altra emergono nuove forme di emarginazione economica e sociale, con effetti di polarizzazione urbana sempre più accentuati.
I due protagonisti coinvolti nei due casi descritti sono attori delle scena architettonica nazionale e internazionale, molto diversi per cultura e formazione, ma entrambi sono intrappolati nel medesimo ruolo, volto a soddisfare una richiesta di rinnovamento di “immagine “ da attuare attraverso l’esibizione di uno “stile”, a partire da condizioni urbane e tecnico-operative errate nelle premesse, e secondo un modello che non considera particolarmente rilevante la responsabilità sociale del progettista. La lettura delle relazioni di progetto rivela l’ansia di una esibizione formale riferita ad un carattere stilistico identificabile, una preoccupazione tutta interna al “processo artistico” che esula da motivazioni di carattere relazionale. Il progetto non intende assumersi il compito di dispiegare (o raccontare) il carattere di un interpretazione riferita ad un contesto, fisico, storico, sociale, ma tende a chiudersi nelle proposizione di azioni tutte interne al processo di generazione delle forma linguistica. Procedimento che è più interessato alla “composizione” dell’oggetto che ai fatti urbani concreti.
Il progetto in questo quadro concettuale non è un commento ad una situazione data ma, coerentemente con la domanda espressa dalla committenza, una affermazione di identità riferita per lo più a valori esterni al contesto e definiti a priori. L’articolazione della forma espressa con tagli, spacchi, sovrapposizioni, rotazioni, variazioni di colore non intende corrispondere alla complessità dei modi di abitare, ne è utile ad esprimere la qualità di una interpretazione. Potremmo dire che si tratta di una architettura che lavora prevalentemente sulla articolazione dei “significanti” più che sulla interpretazione dei significati. Ciò che interessa, pur partendo da posizioni culturali molto differenti, è soprattutto la articolazione e coerenza dei mezzi linguistici che identificano lo stile.
Possiamo infine ipotizzare che questo tipo di interpretazione del ruolo dell’architettura nella trasformazione urbana, visto all’interno del milieu culturale torinese, ha trovato ulteriori ostacoli. Da una parte un’amministrazione efficiente ma che non possiede una cultura urbana in grado di imbastire correttamente processi di carattere “straordinario”, dall’altra una classe dirigente, una cultura di impresa, in cui è radicata una buona cultura tecnica che non accetta per tradizione “improvvisazioni”, preferisce percorrere vie consolidate, è prudente per definizione. A queste condizioni va naturalmente aggiunta la peculiarità di una cultura architettonica torinese in cui l’attenzione al luogo, ai suoi caratteri, alle tradizioni costruttive locali ha un ruolo significativo. Una cultura in cui è molto radicata l’idea che la produzione di una nuova architettura urbana debba prima di tutto essere mirata alla costruzione di un luogo, con tutte le implicazioni concettuali e operative che questo presupposto comporta.
Non può pertanto essere considerato del tutto casuale il fatto che a Torino le grandi operazioni di rinnovamento urbano, che hanno coinvolto i grandi nomi dello “star system”, abbiano avuto, nella maggior parte dei casi, esiti infelici sul piano proprio dell’immagine, e siano state più o meno fallimentari anche dal punto di vista del soddisfacimento dei bisogni.
31 marzo 2015