La rubrica ANNI 10, a cui diamo avvio con lo scritto di Pietro Valle, si prefigge di raccogliere una serie di contributi relativi alla situazione dell’Italia e della sua architettura del più recente passato. Giunti ormai alla metà del primo decennio del XXI secolo, incomincia a divenire possibile tentare una prima opera di storicizzazione – sia pure parziale e provvisoria – del difficile periodo che abbiamo attraversato; una storicizzazione che, senza ambire a fornire quadri di sintesi, prova piuttosto a rintracciare attraverso racconti e testimonianze individuali i “sintomi” significativi di una fase critica e la prospettiva di un suo superamento.
Testo di Pietro Valle
Quel panorama azzerato sembrava contenere rovine al contrario ovvero tutte le costruzioni che eventualmente saranno costruite. Questo è l’opposto della “rovina romantica” perché gli edifici non cadono in rovina dopo essere stati costruiti ma piuttosto sorgono in rovina prima di essere eretti. Questa mise-en-scène suggerisce l’idea screditata del tempo e molte altre cose fuori moda.
Robert Smithson, A Tour of the Monuments of Passaic, New Jersey, 1967[1]
Vengono in mente le parole dell’artista americano Robert Smithson percorrendo la mostra Alvaro Siza, Inside the Human Being al MART di Rovereto l’8 febbraio, nel giorno del suo finissage.[2] Questo termine, evoca il curioso rituale di organizzare un evento nel giorno di chiusura di un mostra per richiamare un pubblico di ritardatari. Qui, tuttavia, esso diventa un monito sul destino di colui che viene considerato un maestro dell’architettura quando si trova a realizzare la propria opera in Italia. Questo finissage, accompagnato dall’eco delle parole di Smithson, richiama un paesaggio di rovine, di frammenti incompiuti, di occasioni perdute, ma anche di edifici non finiti, già potenzialmente diruti per via della loro cattiva gestione.
Smithson, uno dei protagonisti della Land Art e forse il suo più lucido teorico, interpretava tutta una serie di aree degradate (periferie, discariche industriali, miniere abbandonate, cantieri non finiti) come luoghi entropici dove leggere una geologia del deterioramento contemporaneo. In essi sorgevano dei nuovi tipi di rovine: non le rovine prodotte dal passare del tempo ma delle rovine in fieri contenute potenzialmente in ogni processo di mutazione dell’ambiente nell’era del consumismo. La sua intuizione può essere presa come punto di partenza per esplorare il destino del progetto d’architettura d’autore oggi in Italia.
La mostra di Siza al MART presenta, con inusuale disincanto, gli strumenti operativi di un lavoro non finito. Oltre alle note rappresentazioni di progetti già iperpubblicati, la vera sorpresa della mostra è la quantità di progetti che Siza ha redatto per l’Italia, i quali occupano una preponderante porzione dello spazio espositivo. Il novantanove per cento di essi non sono mai stati realizzati, quelli che sono andati in cantiere spesso non sono stati terminati, giacciono in rovina o in noncurante disuso. Questo bilancio sconfortante tratteggia quasi a un’ecatombe.
A parte le decine di progetti rimasti sulla carta, l’opera di Siza in Italia si articola in:
– Cantieri iniziati e interrotti (la sede della Dimensione Fuoco a San Donà di Piave).
– Progetti realizzati in parte, mai completati e già degradati (gli spazi pubblici di Gibellina e Salemi).
– Edifici realizzati completamente e già chiusi perché mal gestiti (il MADRE nel Palazzo Donnaregina a Napoli.
– Un solo intervento (da quel che appare a chi scrive) completato e utilizzato (le case popolari nel Campo di Marte alla Giudecca a Venezia).
Già nel suo lavoro portoghese, Siza ci ha abituato a un costruito sporcato dall’uso e dal tempo. La sua rilettura del Moderno è attuata in edifici spesso realizzati con tecnologie povere e tradizionali che invecchiano in fretta, anche se possono essere sorprendentemente ripresi come è avvenuto per le case SAAL Bouca a Oporto, un suo intervento degli anni Settanta che è stato recentemente restaurato. Gli intonaci anneriti delle ex-architetture bianche di Siza, esperibili a chiunque visiti Oporto, ne hanno fatto l’eroe di una poetica realista che la critica ha spesso ammantato con una patina esistenziale condita dalla saudade dei versi di Fernando Pessoa o dagli aforismi dello stesso Siza.
L’architetto portoghese opera una rilettura del linguaggio delle avanguardie storiche come matrice cui apportare delle manipolazioni che trasformano quei paradigmi in casi isolati, ricchi di irregolarità e di frammenti formali. Ogni tipo diventa in Siza pezzo unico, microstoria individuale. Questa operazione riporta lo scarto del Moderno verso lo spontaneismo (e, a volte, l’incompletezza) dell’edilizia minore, dei tessuti urbani vernacolari.
I complessi di housing sociale di Siza, forse il punto più alto della sua opera, appaiono parallelamente astratti e sorprendentemente familiari. Per questo, Siza è stato letto come l’artefice della rinascita di un’architettura del Sud dell’Europa, capace di incorporare in edifici poveri un sofisticato esercizio di memoria. Tale formalismo contempla, a volte, anche l’incompletezza: i frammenti significanti di Siza si staccano dall’insieme e assumono un’identità autonoma.
Nel sud d’Italia, anche grazie all’interpretazione datane da Francesco Venezia, l’opera di Siza è stata riferita al caos della metropoli mediterranea e alla sua stratificazione archeologica per giustificare il brano architettonico incompleto, a volte non finito o addirittura mal costruito. Questi frammenti sono stati trasformati in analogie della complessità, in autonome frasi poetiche, in feticci rituali da contrapporre alle contraddizioni del reale. Tale lettura apologetica è servita per sdoganare l’opera di Siza in contesti dove egli ha proposto frammenti significanti. Questi magari funzionavano a livello progettuale ma non sono stati accompagnati da un eguale coerenza amministrativa, gestionale e costruttiva. La sua opera in Italia è rimasta appannaggio degli architetti (magari anche colti) ma non ha trovato riscontro nei clienti, nei costruttori e negli utenti come aveva fatto in Portogallo. Isolati nel loro formalismo, i pezzi di virtuosismo di Siza sono rimasti orfani di un contesto, di una reale utenza e sono stati abbandonati a se stessi.
Il risultato è quello che si esperisce al MART, un Siza che sembra quasi giustificare la non realizzabilità, l’incompletezza e il deterioramento della sua opera architettonica. A volte, paradossalmente, sembra quasi che l’individualismo delle soluzioni plastiche dell’architetto portoghese generi la loro decadenza ancor prima che esse siano realizzate.
Ecco quindi il richiamo alle rovine al contrario che non cadono ma sorgono. Un’entropia intrinseca sembra essere parte dei volumi bianchi di Siza, in essi è già implicito il deterioramento. Mentre in Portogallo esso è il risultato di un’intensa vita che abita le sue architetture, in Italia esso appare come il segno dell’incuria con cui sono state gestite ancora prima di essere usate. Nel nostro paese, dove un architetto non riesce a essere autore di un edificio dall’inizio alla fine grazie allo spezzatino delle competenze specialistiche e delle fasi progettuali proposto dalle normative sui lavori pubblici (e grazie al mercato che ha opportunamente adottato il criterio del dividi et impera), anche un’opera autoriale riconosciuta come quella di Siza viene segmentata in parti; qui però questo avviene nel suo esito finale, giustificando strumentalmente la riduzione di un edificio in parti, frammenti o brani incompleti.
Lo spezzatino si è trasferito dall’autore all’opera: per preservare, tuttavia, l’aura dell’architettura con la A maiuscola se ne celebra l’incompletezza come segno di complessità postmoderna. In ciò si crea una perversa alleanza tra la cultura alta degli architetti, curatori e accademici (quelli che parlano nelle interviste in mostra e sul catalogo del MART) e la sottocultura furbesca degli amministratori, clienti e imprese che hanno cannibalizzato l’opera di Siza (e che cannibalizzano l’opera di qualunque architetto) in Italia.
Il cerchio si chiude e gli opposti si incontrano: gli architetti e coloro che li calpestano si stringono la mano in nome di una opportunistica sopravvivenza allo status quo. Anche in questo, il nostro paese mostra una radicata mancanza di rispetto nei confronti dell’architettura e un completo disinteresse nell’indirizzare i progetti verso un dialogo costruttivo con la realtà socio-economica in cui essi si collocano. Forse, però, questa assenza risiede implicitamente anche nell’opera di Siza. Egli ci ha illuso di poter controllare le forme dell’architettura e di poterle costruire con tecniche che appaiono semplici mentre, in realtà solo lui è capace di fare ciò. E non sempre ci riesce.
[1] Robert Smithson, A Tour of the Monuments of Passaic, New Jersey (1967) in The Writings of Robert Smithson, a cura di Nancy Holt, New York 1979, pp. 52-57.
[2] Alvaro Siza, Inside the Human Being, MART Rovereto, 4 luglio 2014-8 febbraio 2015, a cura di Roberto Cremascoli, con la partecipazione di Alvaro Siza e Chiara Porcu.
3 marzo 2015