di Marco Biraghi Download the PDF version
Benché i primi inizi della produzione capitalistica si incontrino sporadicamente fin dai secoli XIV e XV in alcune città del Mediterraneo, l’era capitalistica data solo dal secolo XVI.
Karl Marx, Il Capitale, libro I, sez. VII, cap. 24
Parlare di Manfredo Tafuri, oggi, significa necessariamente andare oltre la semplice celebrazione, il ricordo, e anche il “valore scientifico” di cui molti dei suoi lavori sono ancora portatori. Ciò che qui si vorrebbe cercare di mettere in evidenza, piuttosto, è che cosa nel suo pensiero e nelle sue opere è ancora vivo.
Io credo che sia importante porsi questo interrogativo, perché se oggi, a distanza di più di vent’anni dalla sua morte, ci si interroga ancora su Tafuri, si dedicano ancora convegni alla sua figura, forse è proprio questo di cui si è alla ricerca: ciò che in esso riveste un’importanza vitale, e non semplicemente un’importanza memoriale.
Personalmente ritengo che il pensiero e l’opera di Tafuri abbiano questa importanza vitale, custodiscano qualcosa che per noi oggi è al tempo stesso essenziale ed urgente.
Se una parola è in grado di riassumere il pensiero e l’opera di Tafuri, questa evidentemente non può essere che “storia”: storia dell’architettura, ma anche storia della mentalità, delle politiche, delle società, delle tecniche, delle città, e molte altre storie ancora. In Tafuri c’è tutto questo, e non solo. E inoltre, non si tratta della storia di un periodo soltanto: non esclusivamente della storia del Rinascimento (o meglio, del moderno, inteso in senso storiografico), ma anche della storia della contemporaneità (intesa – ancora una volta – in senso storiografico), dall’Illuminismo fin quasi all’intero Novecento.
In un senso più generale, ma al tempo stesso più preciso e onnicomprensivo, si potrebbe dire che Tafuri, occupandosi di storia moderna e contemporanea, si è occupato della storia nell’epoca dello sviluppo capitalistico.
Storia e sviluppo capitalistico: l’accostamento di questi due termini ha un significato interno al momento storico in cui Tafuri ha operato, e nel quale ha operato tutto il milieu in cui egli si è mosso, ma ha un significato anche dal punto di vista dell’epoca in cui viviamo. Storia e sviluppo capitalistico significa che anche la storia (quella dell’architettura e della città, al pari di tutte le altre) subisce fondamentali modificazioni e “deformazioni” nel momento in cui è sottoposta agli effetti e all’impetuosa crescita dei modi di produzione capitalistici. Non essendovi alcuna dimensione esterna al sistema, anche la storia risulta necessariamente immersa, implicata in esso, così come lo è pure lo storico; il cui operare è profondamente influenzato, condizionato da quello stesso sviluppo. Storia e sviluppo capitalistico pertanto costituiscono un binomio che non può essere sciolto troppo facilmente, e che anzi risulta affatto inscindibile.
Lo sviluppo capitalistico è il grande fenomeno che accomuna – perlomeno in Occidente – le varie epoche storiche che si sono succedute dal Rinascimento (il periodo che, oltre all’affermarsi dell’architettura di Brunelleschi, Alberti, Palladio, vede tra l’altro anche la nascita delle banche e il sorgere del fenomeno dell’accumulazione del capitale) alla Rivoluzione industriale, per giungere fino ai tempi attuali, con una crescita via via sempre più vorticosa, assumendo caratteri sempre più pervasivi, più onnivori. In ciascuno di questi momenti la città, che Tafuri dispone sotto la sua lente d’ingrandimento, è il luogo entro il quale si dispongono le opere degli architetti, ma è anche la precisa forma politica che risponde alle diverse fasi del capitalismo, che a sua volta in nessun modo può essere ridotto a qualcosa di unico, di identico a se stesso, di monolitico. E ciò perché è proprio lo sviluppo, in quanto condizione dinamica, l’aspetto internamente caratterizzante il capitalismo.
Ma lo sviluppo capitalistico non è soltanto una condizione storica oggettiva che vede l’affermarsi di un preciso modo di produzione, e dunque lo “sfondo” strutturale sul quale si stagliano personaggi ed edifici: lo sviluppo capitalistico è anche un modo di leggere la realtà storica, ovvero quel “lungo periodo” sopra indicato. E per Tafuri e per altri intellettuali operanti in quegli anni, si tratta di una condizione ineliminabile, capace di trasformare ogni cosa che venga a contatto con essa. Non una condizione della quale ci si possa liberare semplicemente opponendovisi, rifiutandola, bensì qualcosa di cui si deve tenere conto e con cui confrontarsi in tutti i settori. E ancora di più: lo sviluppo capitalistico è la condizione nella quale il mondo occidentale è venuto conformandosi così come è; ovvero, non tanto o soltanto un modo di produzione detenuto nelle mani di una classe sociale (la borghesia) ai danni di un’altra (il proletariato) – e perciò non soltanto l’antagonista, il nemico, di quest’ultima –, ma anche il formidabile luogo di nascita di tutto ciò che conosciamo: le grandi opere dell’ingegno, della scienza e della tecnica, i capisaldi del pensiero, i “capolavori” dell’arte, della letteratura, e naturalmente quelli dell’architettura; e – non da ultimo – le città stesse, intese come il più articolato e complesso artefatto cui l’uomo abbia dato origine, che ne contiene a sua volta molti altri. Anche questi sono a tutti gli effetti prodotti di quel fenomeno che chiamiamo sviluppo capitalistico.
Tafuri è abbastanza avvertito da sapere che non vi può essere una parte “buona” e una parte “cattiva” nello sviluppo capitalistico, e tanto meno che non è possibile separare manicheisticamente l’una dall’altra: al contrario, vi sono una grande mescolanza e infinite contraddizioni al suo interno. Nello stesso processo di sviluppo capitalistico trovano posto i processi più deteriori ma anche le creazioni più straordinarie.
Lo studio in cui Tafuri analizza in particolar modo il rapporto tra architettura e sviluppo capitalistico è Progetto e utopia (1973), il libro che come noto discende dai quattro saggi pubblicati in precedenza su «Contropiano».[note]Manfredo Tafuri, Per una critica dell’ideologia architettonica, in «Contropiano», 1, 1969, pp. 31-79; Id., Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, in «Contropiano», 2, 1970, pp. 241-281; Id., Socialdemocrazia e città nella Repubblica di Weimar, «Contropiano», 1, 1971, pp. 207-223; Id., Austromarxismo e città: “Das rote Wein”, in «Contropiano», 2, 1971, pp. 259-311.[/note] Non per nulla il sottotitolo del libro (cui nell’edizione inglese verrà dato ancora più risalto in copertina) recita esattamente così: Architettura e sviluppo capitalistico.[note] Manfredo Tafuri, Progetto e utopia. Architettura e sviluppo capitalistico, Laterza, Roma-Bari, 1973; Id., Architecture and Utopia. Design and Capitalist Development, The MIT Press, Cambridge (Mass.) 1976.[/note]
«Contropiano», pubblicata tra il 1968 e il 1971, e diretta (dopo la precoce uscita dalle redazione di Antonio Negri) da Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari, è la terza rivista dell’operaismo dentro l’alveo più vasto della critica marxista; l’operaismo è una corrente di pensiero che vede nella classe operaia non soltanto un soggetto storicamente oppresso, ma anche il motore politico del capitale. Per gli operaisti – Raniero Panzieri e Mario Tronti in special modo – «il capitale sviluppa se stesso perché minacciato dalla forza lavoro che esso sfrutta e sulla quale fonda il proprio dominio. Lo sviluppo capitalistico non è dunque uno sviluppo fatale, il cui telos è scritto nel progresso tecnologico e nella scienza, ma è la misura politica del potere della classe operaia, che quest’ultimo esercita per via negativa»,[note]Pier Vittorio Aureli, The Project of Autonomy. Politics and Architecture within and again Capitalism, Princeton Architectural Press, New York 2008, p. 9. Sull’operaismo cfr. anche Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008.[/note] come diranno Tafuri e Cacciari, attraverso la lotta e il rifiuto del lavoro. La classe operaia viene così concepita come una classe che, proprio in ragione dell’oppressione che subisce, può reagire attraverso i propri strumenti di organizzazione e di lotta, e che pertanto interagisce continuamente con il capitale. Operai e capitale sono due soggetti storici importantissimi. Come scrive Mario Tronti in uno dei saggi pubblicati su «Contropiano», «senza classe operaia niente sviluppo capitalistico».[note]Mario Tronti, Classe operaia e sviluppo, in «Contropiano», 3, 1970, p. 471. Dello stesso autore cfr. anche il fondamentale Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.[/note] Lo sviluppo capitalistico – si potrebbe dire – deve tutto alla classe operaia, non soltanto perché la sfrutta ma anche perché la reazione di questa, il suo antagonismo, lo costringono a reagire a sua volta, a svilupparsi, a proseguire nella sua ricerca di sempre nuove vie per la crescita.
Nel fascicolo numero 1 del 1969 di «Contropiano», in cui Tafuri pubblica Per una critica dell’ideologia architettonica, appare un saggio di Umberto Coldagelli dal titolo Forza-lavoro e sviluppo capitalistico.[note]Umberto Coldagelli, Forza-lavoro e sviluppo capitalistico, in «Contropiano», 1, 1969, pp. 81-127.[/note] Nel numero 3 del 1968 e nel numero 2 del 1969 è la volta di due lunghi saggi di Massimo Cacciari dedicati a Sviluppo capitalistico e ciclo delle lotte.[note]Massimo Cacciari, Sviluppo capitalistico e ciclo delle lotte. La Montedison di Porto Marghera 1. La “fase” 1950-1966, in «Contropiano», 3, 1968, pp. 579–627; Id., Sviluppo capitalistico e ciclo delle lotte. La Montedison di Porto Marghera. 2. La “fase” 1966- estate 1969, in «Contropiano», 2, 1969, pp. 397-447.[/note] Nel numero 2 del 1970 compare il già citato saggio di Tafuri, Lavoro intellettuale e sviluppo capitalistico, immediatamente seguito dal saggio di Enzo Schiavuta, Ricerca scientifica e sviluppo capitalistico.[note]Enzo Schiavuta, Ricerca scientifica e sviluppo capitalistico, in «Contropiano», 2, 1970, pp. 285-309.[/note] E poi ancora, nel numero 3 del 1970 vede la luce il saggio – anch’esso già citato – di Mario Tronti, Classe operaia e sviluppo: dove la parola “capitalistico” è caduta, quasi come se a questo punto la precisazione risultasse inutile, dal momento che è ormai chiaro che è sempre e solo dello sviluppo capitalistico ciò di cui si parla. Volendo allargare ulteriormente lo sguardo, già «Quaderni Rossi», la rivista di Raniero Panzieri, fin dal suo primo numero del 1961, aveva pubblicato il saggio di Vittorio Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico.[note]Vittorio Foa, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in «Quaderni Rossi», 1, 1961, pp. 1-18.[/note]