Manfredo Tafuri: storia e sviluppo capitalistico

Immerso nei problemi con cui si confrontano i tempi che attraversa, Tafuri non muta i motivi di fondo che muovono le sue ricerche; né mutano gli ambiti di indagine, la città e l’architettura come luoghi privilegiati dello sviluppo capitalistico. Cambia la scala, cambiano le geografie, ma non cambiano le intenzioni disvelative nei confronti di quel sistema economico produttivo che è in grado – come lo sarà anche nei decenni successivi – di “abbracciare” e ricomprendere tutto.

Fra tutte le interpretazioni che sono state date dei riflessi di questo passaggio epocale su Tafuri, la più convincente pare essere tuttora quella fornita da Alberto Asor Rosa nel saggio Critica dell’ideologia ed esercizio storico, pubblicato sul numero di «Casabella» uscito a distanza di un anno dalla sua morte.[note]Alberto Asor Rosa, Critica dell’ideologia ed esercizio storico, in «Casabella», 619-620, 1995, pp. 28-33.[/note] Qui egli analizza i passaggi essenziali della critica dell’ideologia architettonica tafuriana, mettendone in luce l’«intento demistificatorio nei confronti di tutte quelle manifestazioni intellettuali e politiche […] che avessero nel tempo […] tentato un’opera d’integrazione migliorativa nei confronti dell’assetto sociale capitalistico».[note]Ibidem, p. 30.[/note]

Ma il discorso di Asor Rosa è incentrato soprattutto sul rapporto tra due elementi che a prima vista potrebbero sembrare estranei, se non addirittura in contraddizione tra loro: critica dell’ideologia e filologia. «La “critica dell’ideologia” – scrive – precede e determina la scoperta della “filologia”, la rende non solo possibile ma necessaria. […] Quando ogni velo è caduto, ciò che resta è studiare, conoscere e rappresentare i meccanismi reali».[note]Ibidem, p. 32.[/note] In questo modo viene operata una ricomposizione di quella “frattura” che altri hanno creduto di vedere tra un “primo” e un “secondo” Tafuri.[note]Cfr. tra gli altri Howard Burns, Tafuri e il Rinascimento, in «Casabella», 619-620, 1995, p. 114-121.[/note]

L’attitudine filologica negli studi di architettura che si è affermata dopo Tafuri (ovviamente, non soltanto per merito suo) e che ha preso piede, almeno in Italia,  come il modo “corretto” di fare storia, si propone come una storia documentaria, e proprio perciò presuntamente imparziale, “oggettiva”; una storia basata su quella che Asor Rosa chiama «la certezza del dato».[note]Ibidem, p. 32.[/note] In questa idea di filologia (che non è affatto quella perseguita da Manfredo Tafuri) sarebbe il documento a parlare, a “dire la verità”, mentre lo storico sarebbe soltanto un tramite, colui che si limita a muovere la bocca per il dato che parla. Questa filologia “cristallizzata” in una vuota acribia, che scambia il mezzo per il fine, ha completamente perduto quel carattere interpretativo che aveva invece per Tafuri. Questa filologia “sedata”, come l’ha definita Massimo Cacciari,  non è più una storia che riesca a rovesciare il quadro costituito, accertato, una storia – almeno in una qualche misura – rivoluzionaria. Sempre più rare sono le filologie che riescono a compiere vere “scoperte”. E questo per una semplice ragione: perché non sono più illuminate da un’idea di sviluppo complessivo entro cui le cose vadano collocate e interpretate.

aua

In realtà la filologia – come ben sapeva Nietzsche, che aveva studiato da filologo – non si dà se non nel suo rapporto stringente con la filosofia. Non si dà storia, documento, senza interpretazione. Pertanto quella della critica dell’ideologia non è una fase che possa dirsi conclusa per noi, così come non vi è credere che potesse dirsi conclusa nemmeno per Tafuri, per quanto nel corso del tempo – del suo tempo – essa abbia cambiato nome o abito. Personalmente ritengo che, al fondo della filologia tafuriana, fosse rimasta l’idea – che è propria della critica dell’ideologia – di dover trovare qualcosa perché la si sta cercando. E qui vi è davvero la differenza tra una filologia “sedata” e una filologia animata da un’idea di fondo. A una filologia criticamente attrezzata non basta trovare: essa deve cercare (ovvero deve saper cercare).

Io credo che ancora oggi per noi una filologia-filosofia, una filologia critica, ovvero una storia critica, sia indispensabile, e addirittura urgentissima, come strumento contro una storia che invece nella gran parte dei casi riflette il punto di vista dominante (benché spesso mascherato dietro un punto di vista soggettivo, personale – o peggio ancora, dietro un “gusto” personale, quello dello storico), ovvero il punto di vista della classe cui lo storico appartiene, se è contentito usare ancora questa espressione. Un’espressione che potrà forse sembrare inadeguata in una prospettiva odierna, e che tuttavia rischia di non esserlo affatto: la critica dell’ideologia infatti non è qualcosa che appartiene – e che quindi riguarda – esclusivamente gli anni Sessanta e Settanta: in quanto opera di disvelamento interna allo sviluppo capitalistico, la critica dell’ideologia non ha perso il suo senso, per la semplice ragione che non è cessato lo sviluppo capitalistico. Siamo tuttora immersi nel grande meccanismo che produce e che si riproduce in maniera sempre più vorticosa, non meno – e semmai in misura maggiore – che negli anni Sessanta e Settanta.

Pertanto questa filologia critica, questa filologia intelligente, vale a dire questa capacità di leggere criticamente la realtà, non ha esaurito il suo compito: ne abbiamo ancora bisogno, anzi, ne abbiamo ancora più bisogno, perché gli obiettivi che essa persegue – per quanto trasformati – sono ancora tutti di fronte a noi; attendono ancora il nostro lavoro di interpreti, di critici intelligenti e attenti.

Questo modo di fare storia non è affatto neutrale. Tutto all’opposto rispetto a una filologia “incantata” dalla propria presunta oggettività, la storia critica tafuriana ha una connotazione politica. Politica in questo senso non va intesa tanto come arte del governo, ovvero ciò che –dovendo amministrare – necessita anche costantemente di operare mediazioni, e dunque di risolvere contraddizioni; politica, a partire dal suo significato etimologico, è pure l’esercizio di ciò che propriamente appartiene alla polis: è la convivenza delle diversità, delle pluralità dissonanti, degli incontri e degli scontri, dei contrasti, delle lacerazioni di cui la città è la sede e che la politica deve tenere insieme, senza ansie di risolverli, di deciderli. Il carattere politico della storia, che tiene vive le contraddizioni, che non le soffoca, non le uccide, non le “governa” riportandole a un accordo, ma le lascia vivere nella loro problematicità, è presente nelle pagine della Ricerca del Rinascimento, così come pure – sia pure in forma del tutto diversa – nei saggi di «Contropiano».

casabella tafuri

È la storia come progetto – e di più ancora: come «progetto di crisi»[note]Manfredo Tafuri, Il “progetto” storico, in Id., La sfera e il labirinto, Einaudi, Torino 1980, p. 5. Cfr. anche Marco Biraghi, Progetto di crisi. Manfredo Tafuri e l’architettura contemporanea, Marinotti, Milano 2005.[/note] –, la storia che mostra le contraddizioni, demistifica, smitizza, rende ragione della realtà, anziché interpretarla in senso semplicemente formale, o addirittura – il che è per la gran parte lo stesso – ideologico. È la storia che mette in crisi, la storia problematica, non quella che fornisce soluzioni.

Questa connotazione politica della storia, in Tafuri, non è in contraddizione con la filologia. Il che non significa che si lascino identificare. È il loro obiettivo di fondo che permane. Si tratta soltanto di due momenti di un medesimo processo. E inoltre, quanto più filologica la storia riesce a essere, quanto più è capace di attenersi al dato, di scaturire direttamente dal documento, e tanto più politica risulta; non ideologica, mediatrice, amministrativa o governativa, bensì tutto l’opposto: realista, contraddittoria e infine – almeno potenzialmente – effettivamente rivoluzionaria. Ed è solo da una storia così concepita che possono scaturire i veri sovvertimenti delle certezze storiche acquisite.

Io credo che noi abbiamo ancora bisogno di questa storia: una storia viva, che ci riguarda molto da vicino. Per questo Tafuri continua a essere importante: non tanto perché – in un senso puramente celebrativo – è stato un “grande storico”, quanto perché il suo modo di fare storia può essere ancora essenziale.

Una storia critica continua a essere importante perché – cone si è detto – gli obiettivi che si prefigge sono ancora tutti da raggiungere. Gli ambiti di ricerca di una storia così concepita, quindi, dovrebbero essere quelli più strutturali allo sviluppo capitalistico dentro al quale ci troviamo tuttora. Per esemplificare, essi potrebbero riguardare: la questione dei modi di produzione contemporanea dell’architettura; la questione dell’architettura come attività concreta che si compie all’interno degli studi (un lavoro spesso sfruttato, tra l’altro); gli effetti dello sviluppo capitalistico sull’architettura, ovvero il divenire astratto del lavoro di architettura (un lavoro parcellizzato come in una catena di montaggio, esattamente come quello delle fabbriche operaie); la questione del ruolo dell’architetto nel processo produttivo dell’architettura (un ruolo a sua volta parcellizzato). E ancora: la questione della progressiva reificazione dell’architettura, o di ciò che ancora ci ostiniamo a chiamare in questo modo, che non soltanto si trasforma in “cosa”, sottoposta com’è alle medesime leggi della mercificazione degli altri prodotti all’interno dell’economia capitalista, ma esattamente come le altre merci diviene evanescente, facendosi immagine. E anche in questo caso, più che scandalizzarsi o criticare superficialmente, è necessario analizzare i processi e cercare di comprendere a cosa sia funzionale tale suo divenire immagine.

Allo stesso modo, una questione centrale per una storia critica è quella della configurazione dell’architettura, considerata però non tanto dal punto di vista di un’“estetica generale”, quanto piuttosto di parametri quanto il più possibile “oggettivi”, vale a dire comparabili. È qui che emerge l’importanza dei dettagli: dettagli costruttivi da confrontare tra loro con la massima freddezza, senza romantiche affezioni per la “cosa in sé”, ma per trarne piuttosto dei quadri più complessivi relativi ai processi di standardizzazione della produzione e di serializzazione degli elementi; processi che riguardano fin nell’intimo anche quei progetti e quegli architetti che maggiormente si ammantano della propria presunta “autorialità”. L’idea dell’architetto creatore (un mito, ormai, che continuiamo a raccontarci o a sentir raccontare) in questo modo verrebbe sgretolato dall’interno, non perché gli “archistar” siano “bravi” o “cattivi”, “simpatici” o “antipatici”, ma perché sono davvero una proiezione ideologica, funzionale a coprire un sistema che essi non interpretano affatto ma che si limitano a usare e che li sfrutta a sua volta.

tafuri ing

Infine, la questione della città come “macchina produttiva” che si modifica nel tempo e che riassume dentro di sé tutte le trasformazioni; la città come luogo di sintesi dei conflitti e delle tensioni sociali, passata nel corso del tempo dalla realtà di macchina meccanica a quella di macchina informatica. È la città che ancora una volta produce e riproduce tutte le questioni di cui Tafuri si è occupato, e che anche oggi dovrebbe continuare a costituire il terreno del nostro impegno critico, l’oggetto privilegiato del nostro lavoro filologico di storici critici. Ovvero l’esatto opposto di quanto fa la critica architettonica odierna su giornali e riviste, la cui funzionalità ideologica come strumento per il mantenimento e la celebrazione del sistema architettonico attuale non potrebbe essere più lampante.

Da questo punto di vista, se per Tafuri l’“architettura è morta” – nel senso che il suo ciclo moderno è terminato, o meglio, ha esaurito la sua specifica funzione ideologica –, oggi quella funzione ideologica non ha però cessato di esistere: è ancora lì da riconoscere, da disvelare. Nel corso del tempo l’architettura si è trasformata, ha modificato i propri usi a seconda delle necessità, i propri caratteri a seconda delle possibilità tecnologiche e del gusto dell’epoca; ma serve tuttora – e oggi forse più che mai – da copertura ideologica ai “disegni” dello sviluppo capitalistico.

Per questa ragione, occuparsi oggi di Tafuri, studiarne il lascito, non deve voler dire farne un “monumento”, eternarlo, soffocarlo nell’abbraccio di una sterile devozione o “ammirazione”; né deve significare farne un passato morto contro quel passato vivo e inquieto di cui egli parlava. Perché ciò equivarrebbe davvero a tradirlo. Al contrario, “liberarsi” di Tafuri (nel senso migliore e più positivo del termine) comporta necessariamente adeguare la sua lezione all’oggi, aggiornandola alle questioni contemporanee. Significa usarlo.

Per chi voglia lavorare in questa direzione, c’è sicuramente molto da fare.

16 marzo 2015

Download the PDF version