A proposito di Expo Milano 2015
di Francesco Bacci
Expo Milano 2015 è erede di una lunga tradizione: le esposizioni universali, da Londra 1851 in avanti, sono sempre state cattedrali del progresso per celebrare e divulgare i miracoli del sistema industriale. È difficile immaginare, soprattutto nell’era post-industriale, dominata da internet, smartphone e facebook, come un tale evento possa esercitare un potere attrattivo sui visitatori. Non a caso l’unica esposizione che ha registrato un notevole successo in epoca post-moderna è stata quella di Shanghai nel 2010, in un paese che sta ancora glorificando i benefici alla crescita economica dovuti alla recente industrializzazione.
Le esposizioni universali, scriveva Walter Benjamin, sono luoghi che servono a «trasfigurare il valore di scambio delle merci» secondo il concetto di fantasmagoria: «fantasmagorie sono immagini incantate del secolo; sono proiezioni del desiderio della collettività»[note]Walter Benjamin, I “passages” di Parigi, Einaudi, Torino 2010[/note]. Il giovane William Morris definì la prima esposizione londinese «venerazione dell’eccesso»[note]Cit. in Bill Bryson, At Home: A Short History of Private Life, Knopf Doubleday, New York 2011[/note].
Alla luce dell’analisi dei precedenti storici si può considerare che l’esposizione milanese sia ancora incardinata sui temi che Paul Greenhalgh ha individuato come centrali in ogni esposizione e si proponga le stesse finalità[note]Paul Greenhalgh, Fair World: A History of World’s Fairs and Expositions from London to Shanghai 1851-2010, Papadakis, London 2011[/note]. Expo dunque come celebrazione di industria, manifattura, materiali e arti al fine di garantire la pace tra le nazioni, stimolare il progresso, aumentare gli scambi, e soprattutto educare le masse.
Il BIE (Bureau International des Expositions), infatti, ha sempre considerato fondamentale il ruolo educativo di tali eventi; un ruolo tuttora propugnato dall’attuale presidente Vicente Gonzalez. Si legge, infatti, nel primo articolo della convenzione dell’ente: «L’obiettivo di un’esposizione universale è l’educazione del pubblico attraverso l’esibizione delle più recenti conquiste per soddisfare il bisogno di civilizzazione, per dimostrare il progresso e per proporre modelli di sviluppo per il futuro».
Risulta tuttavia ormai evidente come la vocazione educativa e di stimolo per il dibattito di Expo Milano 2015 abbia abdicato in favore degli aspetti di puro intrattenimento e svago, secondo una logica per cui la simulazione di veri luoghi e rapporti (così come Michel Foucault descrive il suo «spazio eterotopico») genera uno spazio superficiale, falso ed eccitante. Inoltre, vista la consistente partecipazione di colossi multinazionali, e le dichiarate intenzioni degli stati nazionali (soprattutto quello ospitante) di sfruttare l’evento per ottenere benefici economici, si può concludere che se il fine del docente è il profitto, il ruolo del discente non può che essere il consumo.
Da luogo di dibattito intorno all’alimentazione e ai suoi problemi, l’evento diventa una sorta di gigantesca e costosissima sagra in cui si esibiscono in modo folkloristico le tradizioni culturali, come retaggio di un passato da esibire in forma museale piuttosto che da eleggere come modello. Una sorta di attualizzato panem et circenses, in cui il panem (rigorosamente integrale e biologico) è celebrato a tal punto da diventare esso stesso il protagonista dei circenses. Questo gioco di intrattenimento, nutrizione e distrazione continua a essere finalizzato a non consentire allo spettatore di intervenire nei processi decisionali. Si intende, in questa sede, affermare l’esigenza di un necessario quanto radicale ripensamento dei concetti di sviluppo e crescita, tanto quanto il bisogno di un differente paradigma di relazioni tra l’uomo e la natura, e tra quelli che con acrobazie retoriche vengono definiti “paesi civilizzati” e “in via di sviluppo”.
L’esposizione milanese, invece, consiste in un detournement di argomenti ambientalisti; l’utilizzo di termini come “sostenibilità”, “sovranità alimentare” o “biologico” da parte di chi, in sostanza, ne rappresenta l’antitesi (si vedano gli sponsor dell’evento), non può che modificarne radicalmente il significato[note]Si fa riferimento al processo di “detournement” formulato dai situazionisti. Cfr. Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008[/note]; «nothing fails like success», sosteneva Barbara Johnson[note]Barbara Johnson, Nothing Fails Like Success, SCE Reports 8, 1980[/note]: nel momento in cui un’idea di forte rottura si configura come un -ismo, perde la sua spinta innovativa con l’aumentare della sua notorietà e i suoi discepoli tendono a diventare sempre più semplicistici e dogmatici. Si può dunque sostenere che l’esposizione milanese non sia affatto improntata alla sostenibilità, quanto piuttosto al sostenibilismo.
Il sostenibilismo si avvale di alcuni mutamenti semantici che diventano contenutistici; il termine “progresso”, comunemente considerato la causa delle presenti crisi ambientali ed economiche, è stato sostituito da “innovazione”, tipica di coloro che si eleggono a risolutori di tali crisi. Nonostante il mutamento semantico, è in realtà lo stesso processo, incentrato sulla crescita economica, la globalizzazione e l’aumento dei consumi, a essere celebrato.
Si può definire sostenibilista anche l’architettura “griffata” che assume un ruolo da protagonista nell’intera esposizione. Il paradigma a fondamento delle architetture di Expo Milano 2015 è l’inseguimento della novità delle forme. Scrive Paolo Portoghesi: «una ricerca della novità fine a se stessa o finalizzata, come una droga, ad allontanarci dalla realtà per illuderci che la salvezza sta nel virtuale e renderci così sempre più schiavi del consumismo e della tecnologia»[note]Paolo Portoghesi, Padiglione Italia Expo 2015 – Nemesi & Partners, in “Abitare la terra”, n. 36, 2014[/note].
Lo status mediatico di star a cui è elevato l’architetto, è strettamente correlato alla sua capacità, definita creatività, di proporre novità: un supposto genio che gli consente, secondo i canoni contemporanei, di definirsi artista, in continua tensione tra il tentativo di prevaricare il passato e di non essere condannato all’obsolescenza dall’imminente futuro. Spesso un tale approccio, però, da negazione dello stile, si riduce a stile della negazione, e il continuo confronto con la novità non gli consente di instaurare un rapporto, anche metaforico, con il duraturo.
Tale architettura rispecchia perfettamente il modus operandi contemporaneo maggiormente diffuso che opera per modellazione della forma totale più che per composizione degli elementi, secondo un’accezione post-modernista fortemente influenzata dal decostruttivismo, nonostante siano già passati quasi trent’anni dalla sua storicizzazione.
Il sostenibilismo in architettura si limita a ereditare un simile processo di invenzione della forma e a rivestirla di simboli. Pale eoliche, pannelli solari e fotovoltaici, pareti e coperture verdi. Scrivono Michael Mehaffy e Nikos Salingaros: «Un problema di molti approcci all’architettura sostenibile è che non si pongono il problema della tipologia di edificio che sta alla base del progetto. Si preoccupano, invece, di aggiungere semplicemente componenti più “green” come, ad esempio, apparecchi tecnologici più efficienti o sistemi migliori di isolamento termico delle pareti»[note]Michael Mehaffy e Nikos Salingaros, Towards resilient architecture: why green often isn’t, http://www.metropolismag.com/Point-of-View/April-2013/Toward-Resilient-Architectures-2-Why-Green-Often-Isnt/, aprile 2013[/note].
Il sostenibilismo è ormai divenuto una chiave di lettura a priori della realtà e una modalità di intervento su di essa. È diventato il nuovo “vero”, e per questo indimostrabile, e in quanto tale in grado di unire intorno a sé una schiera di fedeli che necessitano di simboli e riti per alimentare e professare il proprio credo: una sorta di attualizzata kalokagathia in cui bello, buono e vero sono in relazione di indiscutibile interdipendenza.
Il sostenibilismo è diventato il nuovo, e quasi unico, argomento per legittimare l’esistenza delle forme architettoniche, nel momento in cui gli altri fattori legittimanti (monumentalità, simmetria o negazione della stessa, composizione delle parti, citazionismo, mimesi o negazione della storia, ecc.), hanno perso vigore nelle dichiarazioni degli architetti. La progettazione è dunque votata all’inseguimento morboso della novità, giustificata, però, da una forma di rinnovato funzionalismo per il quale “form follows energetic performances”.
Se si volessero definire tali architetture utilizzando le categorie descritte da Robert Venturi, si potrebbe affermare che esse applicano elementi decorativi espliciti e didascalici (propri del “decorated shed”) su forme altrettanto esplicite e didascaliche, nonché presuntuosamente eroiche (come quelle della “papera”)[note]Robert Venturi, Denise Scott Brown, Steven Izenour, Imparare da Las Vegas, Quodlibet, Macerata, 2010[/note]; si può dunque semplificare il progetto sostenibilista come “papera decorata”.
Con l’intenzione di identificare Expo Milano 2015 come momento fondamentale in cui, data la portata mediatica dell’evento, si cristallizzano i caratteri del nuovo fare architettonico, si cercherà di definire il carattere fondamentale del sostenibilismo come tecno-vernacolo-identitar-esotico. L’aspetto tecnologico è sicuramente sotteso e contenuto in ogni costruzione, dal momento che i sistemi di produzione di energia rinnovabile sono ancora abbastanza recenti da essere considerati come innovazioni.
Si può considerare, inoltre, come elemento tecnologico, anche se meno simbolico in questo senso (nell’immaginario comune più vicino all’ambito dell’esotico), l’applicazione di elementi naturali sulle coperture o sulle pareti; un tale asservimento della natura, infatti, è paradossalmente reso possibile solo da complessi sistemi high-tech, come, ad esempio, avviene nei padiglioni americano e israeliano, che presentano pareti verdi, o in quelli commissionati dalle aziende cinesi unite, dalla Repubblica Ceca o dalla Colombia, caratterizzati da una copertura verde. Riguardano l’aspetto tecnologico anche quelle caratteristiche, per cui è fondamentale il processo di modellazione, l’utilizzo della “pelle”, e la generazione dello shock attraverso soluzioni ingegneristiche sorprendenti quanto fini a se stesse.
Ha queste caratteristiche il Palazzo Italia, progettato dallo studio Nemesi, che fa uso in modo esteso di una “pelle” che simula elementi intrecciati, applicata a mascherare parzialmente ampie superfici vetrate, che consente ai progettisti di definire “foresta urbana” quello che in realtà è un mastodonte di 13200 mq per sei piani fuori terra: un programmatico camouflage.
Il carattere tecnologico dell’estetica del sostenibilismo, è manifesto nel padiglione tedesco, che si serve di una tensostruttura articolata secondo forme estremamente fluide, o il padiglione dell’azienda cinese Vanke, progettato da Daniel Libeskind, modellato secondo una forma plastica, tortile e fortemente irregolare, e interamente rivestito da una pelle squamosa. Può essere considerato tale anche il padiglione sloveno dello studio SoNo, che propone un approccio similmente decostruttivista, ma tramite l’adozione di forme rettilinee e spigolose.
Presentano invece, in modo particolarmente evidente, un carattere vernacolare, i padiglioni spagnolo, dello studio B720, e belga, di Patrick Genard, realizzati con leggere strutture lignee che tracciano la figura archetipica di abitazione con il tetto a spioventi. Allo stesso modo, in una declinazione che idealizza la tradizione costruttiva locale, il padiglione cinese, nato dalla collaborazione della Tsinghua University e lo studio Link-Arc, propone degli spioventi curvi e irregolari che evocano una sorta di capanna primitiva. Anche il padiglione svizzero, in uno dei corpi di fabbrica, si presenta con una struttura lignea a spioventi, così come il padiglione Slow Food progettato da Herzog & de Meuron. In tutti questi casi, si tratta di un approccio al vernacolare che si serve del potere simbolico degli archetipi.
Si servono invece di un minore grado di simbologia e sono, quindi, decisamente più aderenti al puro vernacolare, i padiglioni dell’Oman, del Qatar e del Nepal, che propongono una rappresentazione delle proprie architetture tradizionali, in forma di simulazione e tematizzazione, con la volontà di affermare la propria identità nazionale.
Il padiglione messicano di Francisco López Guerra Almada e Jorge Vallejo o quello degli Emirati Arabi Uniti di Norman Foster, invece, sono caratterizzati da uno spiccato carattere esotico. I progettisti del primo sostengono di essersi ispirati alla forma delle foglie che avvolgono il granturco, mentre Foster elegge come proprio riferimento i disegni che traccia il vento sulla sabbia.
In entrambi i casi un elemento naturale costituisce il modello, imitato pedissequamente, per un’architettura con un elevatissimo grado di simbolismo esplicito, ottenuto attraverso lo scimmiottamento di una specifica forma; questo tipo di edifici può indubbiamente essere considerato “papera”, allo stesso modo del padiglione vietnamita, le cui forme realizzate in bamboo si riferiscono al fiore di loto.
Secondo uno stesso processo progettuale, ma con un riferimento antropico e non naturale, il padiglione thailandese dello studio OBA si propone come riproduzione del cappello tradizionale dei coltivatori di riso: il “Ngob”, che in questo modo assume inoltre un forte valore identitario.
Simili analogie formali, in molti casi anche evidentemente forzate, sono spesso formulate al fine di fornire un giustificazione plausibile per un’architettura che apparirebbe altrimenti, soprattutto alla massa da intrattenere, del tutto arbitraria e autoreferenziale; vengono invece utilizzati come riferimenti elementi ampiamente noti all’immaginario comune al fine di coinvolgere il pubblico attraverso la tematizzazione. Ma si può definire “architettura” un tale approccio?
Anche il padiglione francese dello studio X-TU si sviluppa intorno a un concept analogo: i progettisti sostengono che la modellazione della forma dell’edificio sia avvenuta a partire dall’estrusione della morfologia di un territorio tipico francese, e da un suo successivo capovolgimento a costituirne la copertura; un tipo di descrizione che rende evidente l’arbitrarietà del processo di ideazione delle forme e la pura adesione all’estetica del sostenibilismo, attraverso i materiali (legno) e la modellazione della geometria complessiva che evoca generiche forme organiche.
Tutti i padiglioni citati, infine, manifestano una spiccata volontà di essere icone: un edificio-icona ha caratteristiche uniche, assume i connotati di landmark e desidera distinguersi con determinazione rispetto al contesto in cui è inserito in forma di plop architecture, attraverso il proprio carattere di novità o di sovradimensionamento dell’ordinarietà[note]Si fa riferimento alla definizione “plop art” coniata da James Wines[/note].
Se si considera il doppio livello di “decorazioni” applicate alle “papere”, si possono evidenziare due livelli di identità che risultano consolidate e costruite all’interno dell’Expo. Il primo riguarda l’identità nazionale, che si manifesta nel rimarcare all’esterno e all’interno di ogni padiglione le peculiarità e le caratteristiche uniche di ogni singolo Stato, in un’ottica di competizione e di orgoglio nazionalista soltanto parzialmente celati. La seconda, invece, riguarda l’identità globale e i valori condivisi che avrebbero luogo nella cooperazione, ed è soprattutto figlia dell’influenza della globalizzazione sui rapporti internazionali; l’identità globale è rappresentata da caratteri estetici comuni a più edifici di diversa provenienza.
Le identità, globale e locale, articolate intorno alla sostenibilità ambientale e al sostenibilismo in architettura, costituiscono il secondo tema dell’esposizione milanese e sono principalmente finalizzate a conferire all’individuo il senso di appartenenza a un “io collettivo” a cui accedere tramite l’acquisto di alcuni imprescindibili oggetti che ne attestino lo status, disponibili nei numerosi negozi di souvenir presenti in loco: identità collettiva sfruttata per aumentare il consumismo.
Come nei parchi tematici di Walt Disney, la carica emotiva derivata dalla credibilità del luogo immaginario è funzionale a incentivare gli acquisti di oggetti ugualmente tematizzati, lungo la main street. E come a Disneyland all’ingresso di Expo potrebbe campeggiare la frase: “Qui tu abbandoni la realtà per entrare in un mondo di ieri, di domani, di fantasia”. Nonostante quanto dichiarato dagli organizzatori non si può che concordare con Vandana Shiva quando sostiene che una tale mancanza di contenuti è solamente riempita da spot pubblicitari[note]Cit. in Gianni Barbacetto, Marco Maroni, Excelsior. Il gran ballo dell’Expo, Chiarelettere, Milano 2015[/note].
Tali elementi risultano evidenti e fondamentali nella lettura dell’apparato iconografico, e quindi contenutistico, dell’esposizione milanese. Gli emblemi di Expo Milano 2015 ne tradiscono in modo evidente i veri presupposti teoretici: la promozione dell’imperativo consumistico, votato alla crescita economica e la tecnocrazia. Vittorio Gregotti, in modo lapidario e pertinente, definiva architetture di tale genere «calligrafia della visibilità mercantile»[note]Vittorio Gregotti nel corso della presentazione del libro Il possibile necessario, all’interno dell’evento“MI/ARCH”, Politecnico di Milano, ottobre 2014[/note].
Anche nel caso di Expo Milano 2015 si tratta di una mastodontica calligrafia che invade il territorio per celebrare da un lato il potere del mercato, e dall’altro per rispecchiare i desideri di quegli uomini politici che vogliono fregiarsi del titolo di “grandi statisti”.
Le rovine che Expo lascerà dietro di sé saranno l’ultima immagine che coronerà il loro fallimento.
4 maggio 2015