di Maurizio Guerri
Davanti alle opere d’arte si è abituati a dire semplicemente «mi piace» o «non mi piace», spesso dimenticando o accantonando le domande radicali cui una scultura, un dipinto o qualsiasi altra opera d’arte ci sollecita. Spesso ci comportiamo come se l’opera d’arte ci ponesse davanti a un problema di gusto soggettivo e il suo ruolo fosse quello di una suppellettile posizionata in una porzione di spazio con una funzione cosmetica, solo accessoria.
La domanda che ogni volta dovremmo porci dinanzi a un’opera è piuttosto: che senso ha ciò che sto osservando? In che modo l’opera mi sta interrogando?
Cercare almeno di mettere a fuoco questa domanda è un compito necessario perché, nell’epoca del sistema globale del lavoro e della razionalissima dittatura della finanza, non si comprende che senso abbia tentare di dare vita a un’opera d’arte. E allora dovremmo retrocedere alla seguente domanda: che funzione ha l’arte nel nostro mondo? La risposta è semplice e diretta: nessuna. L’arte non ha alcuna utilità, proprio come la ginestra che insensatamente si ostina a crescere nelle pieghe all’arida cenere del Vesuvio. L’arte è stata esautorata da qualsiasi ruolo conoscitivo all’interno del mondo contemporaneo; eppure proprio per questa sua marginalità oggi è per noi un’attività essenziale e irrinunciabile. Così come la ginestra è essenziale e irrinunciabile per lo sguardo di Leopardi.
Nel nostro tempo si può parlare in molteplici modi di arte, in ogni caso si accede sempre in ambiti della cultura che rinviano a forme di sapere che nella prassi sono intese come accessorie, effimere, inconsistenti, in quanto si fondano su ciò che il progetto di conoscenza occidentale da secoli ha escluso dal sistema veritativo. Cresce giorno dopo giorno il dominio nell’ambito materiale attraverso il controllo messo in atto dalle scienze sperimentali, mentre l’esistenza è sempre più irreggimentata entro le leggi imposte dalle regole dei mercati. Spazio per l’arte non c’è, a meno che essa non entri nel sistema del mercato dell’arte o della produzione industriale sotto forma di design.
A partire dall’Europa, la terra è stata avvolta in una rete sempre più ampia di processi di industrializzazione, di elettrificazione, di informatizzazione, di sanificazione, di velocizzazione, di efficientizzazione che se da un lato mirano esplicitamente a rendere più confortevole la vita dell’uomo, dall’altro la espongono a una pressione intrusiva, ubiqua e violenta sconosciuta alle civiltà passate in nome della logica dell’efficienza economica e del progresso.
Perché l’uomo possa iniziare a ri-orientarsi, deve diventare consapevole dei limiti entro cui è costretto e delle possibilità che gli sono offerte. Nel canto leopardiano è l’inutile ginestra che consente al poeta di accedere al senso tragico dell’esistenza: ogni opera d’arte è in questo senso una ginestra che possiede questa forza di orientamento, che è in grado di mettere in scena la bellezza e la felicità della vita nel mezzo del dolore o della desolazione della nostra esistenza.
Forse, ancora più che in passato, l’opera d’arte è per noi oggi una necessità, un’immagine che consente all’uomo di salvaguardare libertà e felicità – e dunque il senso della propria esistenza – all’interno della macchina planetaria in cui è inserito solo per funzionare e per assecondare il movimento del sistema entro cui è costretto.
Esistono forme di conoscenza che resistono assai più di altre alla riduzione dell’esistenza a una questione di funzionamento o a un problema di bilancio. L’opera d’arte è in grado di mostrare l’esistenza di qualcosa di irriducibile alla ratio tecno-economica. Oggi la vita – ci sentiamo ripetere in continuazione – è un far quadrare i conti, eppure quando essa a livello individuale o collettivo è ridotta soprattutto a questo, allora non è più vita. Nessuno può sensatamente rinunciare a quelle forme di felicità e di libertà che nascono nello spazio dell’arte, nelle oasi estranee al deserto.
Allora chiunque oggi non intenda soccombere allo sfruttamento e al livellamento cui il mondo automatizzato tende a ridurci, dovrà necessariamente rivolgersi all’arte come fonte di forza vitale e come capacità di orientamento. Ogni volta che l’inutilità dell’arte riesce ad aprire anche solo un minuscolo spazio nel piano di organizzazione globale dell’esistenza, si impone già come forma di resistenza al mero funzionamento, ci ricorda l’eccedenza della vita, si esprime come un insediarsi della libertà nell’esistenza dell’uomo. Ogni volta che il nostro sguardo accoglie l’arte, si dischiude in tutta la sua forza e in tutta la sua bellezza il senso delle parole leopardiane: «Di dolcissimo odor mandi un profumo che il deserto consola».
*Il testo è scritto in occasione della mostra Nel deserto cresce la ginestra, visitabile presso la Galleria Renata Fabbri Arte Contemporanea fino al 20 settembre. La mostra, a cura di Vita Lerner, raccoglie alcune opere di Sofia Bteibet, Giuseppina Giordano, Kwangwoo Han, Luisa Turuani, Lorenzo Zuccato, tutti studenti dello scultore Vittorio Corsini presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Il titolo della mostra rievoca l’immagine leopardiana della ginestra, un’esistenza delicata e tenace allo stesso tempo, l’immagine della bellezza che vive nella desolazione, della vita che cresce nel deserto.
Milano, 16 luglio 2015