UN ALTRO SOGNO PER MILANO
di Alessandro Benetti e Nicola Russi
24 luglio 2015
1. MILANO, “PATRIA ARTIFICIALE”
26 aprile 2015: il Sindaco di Milano Giuliano Pisapia e l’Amministratore Delegato di Expo Giuseppe Sala, alla presenza di quasi 50,000 milanesi,1 inaugurano la Darsena, restaurata secondo il progetto di Bodin & Associés Architectes con Edoardo Guazzoni, Paolo Rizzatto e Sandro Rossi,2 risultato vincitore al concorso internazionale ad inviti organizzato dal Comune di Milano nel 2004.
Primo maggio 2015: apre Expo Milano, che ha finanziato direttamente la realizzazione del progetto Darsena e che per molti mesi, sotto il cappello tematico di Feeding the Planet. Energy for Life, ha dato ampio spazio alla riflessione sulla valorizzazione delle vie d’acqua milanesi.3
10 giugno 2015: a Palazzo Reale viene presentato per la prima volta al pubblico lo Studio di Fattibilità per la Riapertura dei Navigli Milanesi, progetto coordinato dal Professor Antonello Boatti con la partecipazione del Politecnico di Milano, dell’Università di Pavia, dell’Università Statale di Milano e dell’Università Bocconi.4
Stimolato da questi tre avvenimenti topici, il dibattito sul sistema delle acque s’intensifica rapidamente in città, coinvolgendo sia gli ambienti accademici e specialistici che i non addetti ai lavori.
È questo l’ultimo capitolo di una riflessione collettiva che ha accompagnato da sempre la costruzione della città.
Quando Carlo Cattaneo, nelle sue Notizie naturali e civili su la Lombardia,5 definisce l’intera regione come una “patria artificiale”, intende evidenziare l’esistenza di un progetto culturale che ne ha conformato il territorio, “per nove decimi non (…)opera della natura”, ma dei suoi abitanti.
Allo stesso modo, a Milano ogni spazio pubblico è un “fatto culturale”, che implica uno sforzo concettuale – per progettarlo – oltre che economico e materiale – per costruirlo, a causa dell’assenza di geografie naturali dominanti – fiumi, laghi, colli o monti – in grado di impostare grazie alla loro conformazione una gerarchia e morfologia fondamentale dei vuoti urbani.
Il ricco sistema delle acque del territorio milanese è coinvolto nella definizione di questa geografia condivisa fin dai tempi più antichi, quando i Romani intraprendono imponenti bonifiche (in epoca repubblicana) e deviano dal loro corso originario l’Olona e il Lambro (tra le tante opere di epoca imperiale).6
Da allora, le vie d’acqua si rivelano uno strumento duttile nelle mani di governanti, ingegneri, architetti e pianificatori che, nel corso dei secoli, ne mutano continuamente la configurazione, offrendo ogni volta a Milano una rappresentazione inedita di sé stessa.
La più nota tra tutte ci racconta del centro racchiuso da una cerchia, da cui si dipartono radialmente i 3 navigli principali (Grande, Pavese e Martesana): fortemente impressa nella memoria collettiva – potenzialmente perché più compiuta e duratura di molte altre – negli ultimi cent’anni è messa in discussione dalla copertura di ampi tratti dei canali che la costituiscono, aprendo la strada alla possibile elaborazione di una nuova immagine del territorio milanese.
Nei secoli, la città reagisce agli sviluppi delle vie d’acqua e ne riconosce in primo luogo il valore infrastrutturale, successivamente la funzione di motori di sviluppo delle attività industriali e, troppo raramente, il ruolo di supporto per la costruzione degli spazi del comfort urbano.
Oltre alle strade, le rose7: le vie d’acqua non solo forniscono alla città le prestazioni necessarie al suo corretto funzionamento, ma possono essere anche canali privilegiati per la progettazione di spazi seducenti, che sfuggono ad un approccio esclusivamente ingegneristico alla pianificazione.
Come esempio più recente della capacità di Milano di definire culturalmente le geografie dominanti del proprio territorio e, coerentemente con esse, selezionare criticamente alcuni vuoti per trasformarli in spazi pubblici, il progetto di riqualificazione della Darsena è un investimento strategico e condivisibile, potenzialmente in grado di trovare all’ex-porto fluviale, ormai obsoleto, un nuovo ruolo nella città contemporanea.
2. LA DARSENA RIQUALIFICATA E LO STRANO CASO DELLA NOTTE DELLE LANTERNE
A metà dello scorso decennio, il bando di concorso per l’area della Darsena, estesa su di una superficie di circa 100.000 metri quadrati tra viale Gorizia, viale D’Annunzio, piazza Cantore e piazza XXIV Maggio, e comprendente via Ronzoni fino alla Conca di Viarenna, mira “al mantenimento del suo forte valore simbolico”. Tra gli obiettivi del progetto si cita “l’identificazione dell’ambito monumentale (…) nella sua memoria storica e nei suoi caratteri attuali, quindi la combinazione dei vincoli tecnici, artistici e funzionali per la salvaguardia del carattere omogeneo che tale ambito deve avere”.8
Tra i dieci progetti finalisti – che comprendono tra gli altri alcuni grandi nomi dell’architettura internazionale, come David Chipperfield e Eduardo Souto de Moura – la giura presieduta da Pier Giuseppe Torrani seleziona quello della cordata guidata da Jean-François Bodin, lodandolo per ”un’acuta intelligenza della topografia storica dell’area, (che ne promuove) una valorizzazione sensibile anche alle esigenze monumentali e paesistiche, con una significativa accentuazione dei valori d’uso dello spazio trasformato”.9
A dieci anni di distanza e a cantiere finalmente ultimato è possibile abbozzare un primo bilancio sulla sua effettiva validità, premettendo che la “promessa” della riorganizzazione degli spazi che affacciano sul bacino è stata sostanzialmente mantenuta.
A partire da Piazza XXIV maggio, pedonalizzata e valorizzata come vuoto monumentale, dominato dalla porta del Cagnola, un secondo invaso a vocazione commerciale conduce al nuovo mercato comunale, da cui si dirama un passeggio alla quota dell’acqua, protetto dal traffico di viale d’Annunzio dallo “sperone” ricostruito delle mura spagnole. Verso piazza Cantore, un ponte pedonale permette di raggiungere la sponda sud e un’area verde in leggera pendenza ammortizza la differenza di quota tra la Darsena e la città.
Decisamente meno convincenti sono gli esiti formali dell’operazione, alla luce dei quali le osservazioni fatte a suo tempo dalla giuria sembrano anticipatorie di un pastiche estetico.
La selezione dei materiali utilizzati per pavimentazioni e rivestimenti -tra i quali spiccano, a livello quantitativo e di risalto cromatico, le tante superfici in mattoni a vista – così come il loro posizionamento e accostamento e, in una certa misura, la conformazione di alcuni ambiti spaziali del progetto, sembrano certamente derivare da un’attenta analisi dell’area, ma senza che nessuna forma di elaborazione critica intervenga a mediare il rapporto tra la lettura storico-archeologica e il progetto.
La Darsena riqualificata appare come la trascrizione letterale e materiale di un’analisi meticolosa: di fatto, però, la sovrapposizione simultanea dei segni dei suoi tanti passati sul suo spazio fisico inibisce qualsiasi possibilità di scrittura di un’immagine contemporanea.
Il progetto di Bodin e colleghi è, suo malgrado, uno degli esempi più compiuti di una modalità di tutela del patrimonio storico-monumentale promossa dalle sovrintendenze italiane, concentrata unicamente sulla salvaguardia del singolo “oggetto” e quasi mai in grado di riconoscere il valore paesaggistico di sistemi più complessi.
Così, se da un lato tanti frammenti del patrimonio materiale della Darsena tornano a essere leggibili nella loro singolarità, il loro accostamento si rivela del tutto incapace di costruire un paesaggio contemporaneo.
Nessun nuovo “senso” emerge dalla promiscuità forzata di segni antichi – originali o trascritti – incapaci di dialogare tra loro e con il presente, anche perché la loro presenza non sembra derivare da una scelta progettuale consapevole di “congestione semantica”, ma piuttosto da una trascrizione passiva dei dettami normativi.
In questo quadro poco incoraggiante, non stupisce la complessiva incapacità di gestire il linguaggio architettonico contemporaneo di quei pochi elementi che lo adottano.
Tra tutti, spicca in negativo il padiglione principale del mercato comunale, che sembra ignorare del tutto sia l’eccezionalità della sua posizione nella città che le potenzialità estetiche, programmatiche e culturali intrinseche alla sua funzione – confermate dai recenti esempi virtuosi di molte città europee, come il Mercato di Santa Caterina a Barcellona di EMBT Arquitectes (1997-2003).
Una mesta tettoia di color “verde Malpensa” – denominazione nazional-popolare del caratteristico, e poco fortunato, leit-motiv cromatico della segnaletica dell’aeroporto omonimo – racchiude la semplice griglia dei “loculi” – come li definiscono i commercianti – destinati alla vendita al pubblico, mentre locali tecnici e impianti fanno capolino in ogni interstizio.
Difficilmente, quindi, si potrà riconoscere alla Darsena riqualificata il valore di un prodotto della cultura architettonica e urbanistica contemporanea.
Ciò nonostante la città si è appropriata con estrema rapidità dei suoi spazi, che in molte occasioni hanno raggiunto un livello di affollamento tale da farne temere il collasso.
Particolare scalpore ha destato l’episodio del 24 giugno 2015 quando più di 50,000 persone si sono riversate nel quartiere per partecipare alla Notte delle Lanterne, cerimonia organizzata dall’Unione Buddista Italiana e da Urbazen Bpeace. In quell’occasione, mentre la pressione della folla bloccava la circolazione nelle strade circostanti – in particolare lungo viale Gorizia – e la linea 2 della metropolitana faticava ad assorbire i flussi in arrivo, nel sovraffollamento delle banchine molti avventori hanno contravvenuto ai divieti e si sono tuffati nelle acque della Darsena.
Al di là dei numeri astratti e degli aneddoti, e malgrado i limiti evidenti di un progetto architettonico non all’altezza della situazione, il successo della Darsena racconta di una Milano ansiosa di ripensare la propria dotazione di spazi pubblici e la gamma di prestazioni che essi offrono.
3. LA RIAPERTURA DEI NAVIGLI INTERNI: IL FASCINO AMBIGUO DEL PITTORESCO
Lo Studio di Fattibilità per la Riapertura dei Navigli Milanesi, che riporta le acque cittadine al centro del dibattito culturale, sembra confermare la direzione intrapresa con la riqualificazione della Darsena.
A uno sguardo più attento, però, stupisce che in un fascicolo ricco e approfondito, supportato da una solida strumentazione tecnica e culturale, il tema dello spazio pubblico sia pressoché totalmente trascurato.
I fotomontaggi che corredano la ricerca dimostrano che poche valutazioni sono state fatte sui possibili riverberi della riapertura della cerchia sui vuoti della città: l’acqua, riemersa dalle “viscere” della città minerale, e pochi segni di un pittoresco “da cartolina” (in molti casi effettivamente ereditati da immagini d’epoca) sono accostati “automaticamente” alle infrastrutture e ai materiali della città contemporanea, senza che tra i layer del passato redivivo e del presente s’instauri un’effettiva relazione progettuale.
La semplicità di queste visualizzazioni schematiche esprime, forse involontariamente, un complessivo disinteresse verso la costruzione di un paesaggio urbano contemporaneo, nei termini delle sue estetiche e dei suoi usi.
Peraltro, a questo mix di difficile interpretazione è affidato il compito di innalzare la qualità urbana di contesti centralissimi, che già oggi sono attrattivi proprio in virtù della compiutezza e della monumentalità delle loro presenze architettoniche ma che necessiterebbero, al contrario, di una revisione attenta dei vuoti tra di esse.
Proprio lo scarso appeal di queste visioni un po’ affrettate, che sembrano voler annullare con pochi colpi di Photoshop 8 decenni di evoluzione urbana – inaugurati, tra l’altro, dalle distruzioni diffuse della Seconda Guerra Mondiale – mette in evidenza una questione che potrebbe diventare centrale nel dibattito sulle acque milanesi: qual è il valore dell’acqua nella costruzione dello spazio pubblico di una città? È sufficiente la sua presenza per garantire la qualità degli spazi che la circondano?
I fotomontaggi allegati allo studio di fattibilità dimostrano che non è così: una via d’acqua è certo in grado di modificare sensibilmente il funzionamento e la percezione degli spazi che attraversa, ma solo a patto che la sua presenza sia supportata e affiancata (“contestualizzata”) da un progetto coerente dei vuoti potenziali disposti lungo il suo percorso.
4. OLTRE L’ACQUA: LO SPAZIO PUBBLICO NELLA CITTÀ METROPOLITANA
Questa “contestualizzazione” delle acque avviene molto raramente a Milano: i suoi esempi più evidenti sono la riqualificazione della Darsena, ma anche la ripavimentazione e la pedonalizzazione dei tratti iniziali delle ripe dei Navigli Grande e Pavese, tutti interventi che condividono i limiti di un’impostazione progettuale più attenta alla forma e alla normativa che alle potenzialità d’uso.
In altre città europee la situazione è molto diversa e spesso le vie d’acqua sono valorizzate come motori di sviluppo, “spine” in grado di condurre la qualità del centro urbano in contesti che ne sono carenti.
A Parigi, la riprogettazione del Canal Saint-Martin non si è limitata a ridisegnarne i quais, ma ne ha fatto il baricentro dei principali spazi pubblici nell’est della capitale, da Place de la République al Parc de la Villette, passando per Place de Stalingrad e per le sponde del Bassin de la Villette.
Il Regent’s Canal di Londra, che si snoda per ben 13,8 km nel nord della città, a partire dagli anni ’90 si è rapidamente trasformato da retro degradato ad affaccio privilegiato dei quartieri che attraversa. Da Regent’s Park a Camden Town, fino a Victoria Park e all’East End, il canale dialoga con i materiali della città limitrofa e le sue sponde alternano tratti decisamente “urbani”, ricchi di funzioni commerciali e culturali e densamente popolati, ad altri dove l’intensità di progetto diminuisce e prevale la dimensione di corridoio verde.
A Zurigo il Limmat è balneabile in tutta la città – come il Rodano a Ginevra e l’Aare a Berna – e le sue rive riccamente infrastrutturate possono contare sulla presenza di due veri e propri stabilimenti balneari (Oberer Letten e Unterer Letten), che in estate diventano il principale luogo di aggregazione nella capitale svizzera. Qui la popolazione può sperimentare inedite forme di appropriazione e libertà d’uso interdette negli spazi pubblici formali della città.
A Milano, lo studio di fattibilità ha fissato poco sopra i 400 milioni di euro la somma indicativa – ma quella reale potrebbe essere ancora maggiore – necessaria a “restituire” alla città l’intera cerchia interna, completa di alcune connessioni con il sistema esistente.
Perché, però, concentrare così tanto denaro nel cuore della città storica, dove i valori immobiliari sono già elevati e la mixité sociale ridotta al minimo, quando dalla cerchia dei bastioni si diparte tuttora un sistema di canalizzazioni attive e scoperte, la maggior parte delle quali giace da tempo come “dimenticata” e necessiterebbe urgentemente di un progetto unitario e strutturante?
A Parigi il recente progetto dello studio TVK, concluso nel 2013, ha radicalmente ridefinito la percezione e il ruolo nella città di Place de la République, il punto più centrale del sistema urbano del Canal Saint-Martin.
Da vuoto monumentale che concludeva la Paris de pierre10 in corrispondenza dei suoi bastioni, la piazza è stata ripensata come uno spazio contemporaneo, aperto ad una molteplicità di usi e rivolto verso Belleville e i faubourgs orientali, mettendo in discussione la gerarchia tra aree centrali ed esterne della città.
Allo stesso modo, la Darsena riqualificata, svincolata dal passato ingombrante della città fortificata, potrebbe configurarsi come una delle teste centrali di un sistema ramificato di superfici continue, in grado di amplificarne la qualità e di trasportarla verso il territorio metropolitano, che ne è quasi completamente sprovvisto.
5. ACQUE NASCOSTE, ACQUE MALTRATTATE
I Navigli Grande, Pavese e della Martesana sono solo le più note tra le vie d’acqua milanesi e, benché non possano definirsi progettati adeguatamente se non in brevissimi tratti – prevalentemente in prossimità del centro – sono ben integrati nel funzionamento degli spazi pubblici cittadini.
La rete completa delle acque extra-muros, però, è molto più complessa.
Esiste, ad esempio, una ricca trama di connessioni tra il Naviglio Grande e il Naviglio Pavese: la diramazione di quest’ultimo che corre lungo via Magolfa – oggi asciutta – si unisce in piazza Arcole alla roggia Boniforte, che proviene da Ripa di Porta Ticinese, segue il tracciato di via Argelati e si dirige verso la circonvallazione esterna.
Più a sud, all’altezza della chiesa di San Cristoforo, da uno scaricatore del Naviglio Grande ha origine il Lambro Meridionale che, nel suo percorso verso est, viene scavalcato “in quota” dal Naviglio Pavese, senza che i rispettivi flussi s’incrocino.
La mappatura di questa rete potrebbe fornire una visione inedita del quartiere dei Navigli e suggerire la possibilità di una sua riprogettazione diffusa, che ne coinvolga i tanti spazi potenziali e le presenze di qualità – come le storiche piscine Argelati di Arrigo Arrighetti (1958-1962), il campus IULM, con la recente aggiunta dell’edificio IULM6 di 5+1AA (2014) e il complesso per uffici in via Santander di Mario Cucinella (2011).
Alcuni processi di riappropriazione dal basso dei vuoti “dimenticati” di questo sistema urbano sono già in atto, ad opera di comitati e associazioni di quartiere. Ad esempio, nell’area tra le vie Malaga, Brugnatelli e Bussola, appena a ovest del viadotto di viale Cassala, l’associazione Comitato Ponti ha intrapreso un’operazione di riordino della sponda sud del Lambro Meridionale, liberandola dalla vegetazione infestante e dai rifiuti scaricati dai precedenti occupanti abusivi, e adibendo lo spazio ricavato a giardino condiviso – il così detto Giardino Nascosto, progettato con la collaborazione dello studio AG&P11.
In mancanza di una visione complessiva che li sistematizzi, però, questi progetti non sono ancora in grado di costruire un’ossatura di spazi pubblici di qualità.
Ancora nel sud della città, il tratto scoperto della roggia Vettabbia intercetta alcune delle principali aree di trasformazione recente o prossima della città, dal cantiere per l’ampliamento del Campus Bocconi – su progetto di SANAA, che prevede proprio la riapertura del corso d’acqua e la cui conclusione è prevista nel 2018 – proseguendo ai margini dell’area ex-OM e piegando verso il Parco Sud in prossimità della Fondazione Prada.
Malgrado la continuità degli spazi limitrofi alla roggia sia stata in parte compromessa dalla alcune recenti edificazioni – tra le quali, ironicamente, spicca per invasività la direzione marketing e commerciale di Ferrarelle S.p.A. – la permanenza di ampi vuoti disponibili al progetto conferma la possibilità d’immaginare la Vettabbia come un elemento strutturante e caratterizzante di una parte di città particolarmente sensibile che, a causa di una generale assenza di pianificazione, della scarsa qualità del suo costruito diffuso e della mancanza di connotazioni funzionali attrattive, fatica a definire il proprio ruolo alla scala metropolitana.
Anche il Lambro, l’unico tra i corsi d’acqua maggiori di Milano a scorrere quasi completamente in superficie, “sopravvive” alla complessiva indifferenza delle istituzioni, in attesa che un progetto adeguato ne riconosca il ruolo alla scala territoriale, come fondamentale ”autostrada d’acqua” che connette Milano ai sistemi geografici delle Alpi e della pianura irrigua.
La proposta di creazione di un Parco Orbitale attorno alla città, presentata da Stefano Boeri e dall’associazione VivereMilano12 nel 2005, è una delle numerose visioni del territorio milanese che negli anni hanno sostenuto questa ipotesi.
Già oggi molti spazi progettati, benché tutti fortemente sottoutilizzati, si allineano lungo il fiume – dal Parco Lambro al Parco Forlanini e all’area di Cascina Monluè, per citarne alcuni – mentre si moltiplicano gli episodi di appropriazione semi-spontanea delle sue sponde – come gli orti condivisi, ora formalizzati, lungo via Rizzoli, “all’ombra” degli RCS Headquarters di Boeri Studio (2001-2006).
5. UN ALTRO “SOGNO” PER MILANO
Se è vero che tra i compiti della disciplina urbanistica rientra anche l’elaborazione di “sogni” per il futuro del territorio, lo Studio di Fattibilità per la Riapertura dei Navigli Milanesi alimenta il sogno legittimo di una città coscia di avere a disposizione un’immensa potenzialità – le sue acque – che da troppo tempo non è adeguatamente messa in valore.
Perché, però, rifugiarsi in un sogno retroattivo, “mimetico” delle forme di una storia ormai tanto lontana da sfumare nel mito?
Milano contemporanea ha l’opportunità di elaborare un sogno nuovo, inedito e più ambizioso.
È una visione che, correndo sul filo dell’acqua, racconta la possibilità di riequilibrare investimenti e risorse annullando la dicotomia tra centro e “periferia” alla scala della città metropolitana.
È un sogno democratico, che ridistribuisce la dotazione di spazi e qualità a favore delle aree oggi più svantaggiate.
Percorrendo le rive malconce del Lambro nei dintorni di Cascina Gobba, dove i campi nomadi si espandono negli interstizi tra le infrastrutture stradali e ferroviarie della città formale, capita spesso d’intravedere piccoli gruppi di bagnanti improvvisati, che dipendono dal fiume sul piano strettamente pratico – come unica acqua corrente a loro disposizione – ma che uno sguardo sognatore può facilmente confondere per liberi nuotatori.
E se questo stesso uso che oggi bolliamo come un “orrore” – perché emblema di condizioni di vita che conosciamo come estremamente disagiate – ci stesse suggerendo una possibilità concreta per il futuro della città?
Note:
[2] www.europaconcorsi.it // www.paolorizzatto.it
[5] C. Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Tip. G. Bernardoni, Milano, 1844
[6] www.wikipedia.it /wiki/Idrografia_milanese
[7] “Oltre alle strade, le rose” parafrasa il celebre slogan di Marx, “Bread and Roses”, ripreso nel 1912 dai lavoratori americani che protestavano per ottenere migliori condizioni di lavoro (il pane) e di vita (le rose).
[10] “Paris de pierre” parafrasa Victor Hugo, che in Notre Dame de Paris afferma: “Nos pères avaient un Paris de pierre ; nos fils auront un Paris de plâtre” (“I nostri padri avevano una Parigi di pietra; i nostri figli avranno una Parigi di gesso”). Questa distinzione è utilizzata per riferirsi alla differenza tra il centro città, incluso nella cerchia settecentesca dei Fermiers Généraux, e i faubourgs (sobborghi).