Ponti che crollano

di Alberto Giorgio Cassani

«Una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare»
Franz Kafka, Die Brücke, 1916

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René Magritte, Le pont d’Héraclyte, 1935

È raro che un ponte decida di crollare. Solo il genio di Franz Kafka, per quanto ne so, ha immaginato un tale evento, raccontato in una pagina di grande letteratura come solo sapeva fare, nei racconti e non solo in quelli, il narratore di Praga. Il ponte di Kafka (Die Brücke, 1916) decide di voltarsi per vedere lo sconosciuto che lo sta torturando con la punta acuminata di un bastone, anziché limitarsi ad attraversarlo. «Un ponte che si volta!» («Brücke dreht sich um!»). L’evento è così imprevedibile che lo scrittore inserisce il fatidico punto esclamativo (da usarsi sempre, come sanno bene tutti i grandi scrittori, cum grano salis): «Non ero ancora voltato e già precipitavo, precipitavo ed ero già dilaniato e infilzato dai ciottoli aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacificamente attraverso l’acqua scrosciante» (traduzione di Anita Rho).

Poi ci sono i ponti che fingono il crollo: il ponte “Ruinante” di Gian Lorenzo Bernini a Palazzo Barberini in Roma, che finge teatralmente, da grande macchina scenografica barocca, di crollare sotto i nostri occhi – guardando dal Pont Rouge di Parigi, il 31 luglio 1665, le acque scorrenti della Senna, Bernini affermerà: «È un bello spettacolo: io sono molto amico delle acque; esse fanno molto bene al mio spirito», forse percependone anche, però, la pericolosità per le pile dei ponti; o i tanti ponti in finta rovina del Settecento, in particolare quelli disegnati da Robert Adams per i parchi all’inglese.

Quindi ci sono i ponti che stanno andando in rovina per l’età (come quelli dipinti dal “fantastico” Hubert Robert). Alcuni di questi sono in parte crollati e una protesi di legno è stata pietosamente collocata per ripristinare il passaggio. In tutti questi casi è l’ovidiano tempus edax rerum il responsabile del crollo.

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Hubert Robert (Paris 1733-1808), The Old Bridge

Ma edacior è stato assai di più l’uomo, nel corso di tutta la sua storia. Non ci sono manufatti architettonici che, come i ponti, abbiano subìto tanti attacchi e distruzioni. Perché se i ponti sono stati costruiti per collegare, quando il fine è, all’opposto, quello di separare e isolare, allora per loro non c’è speranza: sono i primi a farne le spese. Basterebbe citare quante volte sono stati fatti saltare i ponti romani costruiti fuori dalle mura aureliane. Totila, in questo campo, ha sicuramente il primato di più terribile vastator. E certamente il generale Narsete, quello di più grande restaurator. Ma in pratica ogni assalitore ed ogni assalito, dalla notte dei tempi, ha cercato, quando possibile, di “tagliare i ponti” dietro la sua azione d’offesa o di fuga per isolare o rallentare il nemico.

Basterà citarne uno, forse il più famoso di tutti: il ponte di Santa Trìnita di Michelangelo-Ammannati in Firenze, fatto saltare dai tedeschi il 4 agosto del 1944, ricostruito «com’era, dov’era» da Riccardo Gizdulich e inaugurato il 16 maggio 1958.

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La distruzione del ponte di Santa Trìnita, 4 agosto 1944
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La ricostruzione del ponte (1952-1958)
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Il ponte di Santa Trìnita oggi
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Il Tacoma Narrow Bridge, Tacoma (Washington D.C) (inaugurazione 1 luglio 1940)

Infine, i ponti crollano perché mal progettati. Il caso che fece epoca, anche perché filmato in diretta, è certamente quello del Tacoma Narrows Bridge (Washington D.C.), il cui impalcato crollò la mattina del 7 novembre del 1940 per essere entrato in risonanza col vento (ora prudentemente affiancato da un “Ponte-badante”).

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Il crollo dell’impalcato del Tacoma Narrow Bridge (7 novembre 1940)
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Il Tacoma Narrow Bridge affiancato dal suo “gemello” (inaugurazione luglio 2007)

L’Italia, di recente, è diventata il paese dei “ponti che crollano”. Inondazioni, smottamenti, cedimenti strutturali di opere appena inaugurate dicono quanto avesse ragione Friedrich Nietzsche scrivendo che il ghiaccio «rompe gli esili ponti» (Così parlò Zarathustra, Di antiche tavole e nuove, 6, p. 246). Ma il filosofo di Röcken si riferiva ai ponti come metafora dei «valori delle cose», del «bene” e del «male». Qui si tratta di qualcosa di molto più concreto: ponti che devono sottostare alla legge di Kafka secondo cui «una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» e che invece, per tanti motivi – mal progettazione, incuria, mancanza di manutenzione, per non dire malaffare –, crollano senza aver dignitosamente svolto il compito per cui erano stati pensati.

C’è infine un ultimo caso, che può chiudere questa breve carrellata di modalità d’essere del ponte “che crolla”: la Teufelsbrücke di Friedrich Ludwig Persius nello Schlosspark Glienicke in Potsdam (1837). Un caso “emblematico”, che può forse riassumerli tutti: progettato da Persius come finta rovina, fu restaurato dai nazisti che non potevano concepire un ponte che non fosse perfettamente compiuto, solido ed “eterno”; derestaurato (dimenticandosi però di togliere un pezzetto di parapetto, come da progetto originario) nel dopoguerra; infine crollato in parte (nel pilone centrale) nel 2009. In attesa di restauro, per quanto si può dedurre dalle fonti sul web.

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Ludwig Persius, Teufelsbrücke (1837), Schlosspark Glienicke in Potsdam
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Ludwig Persius, Teufelsbrücke dopo il crollo del 2009 e le opere di primo intervento

Sic transit gloria pontis.

24 luglio 2015